Dopo aver studiato con profitto a Berlino, Karl Marx presentò la dissertazione di laurea a Jena, dove ottenne in absentia il titolo di dottore nell’aprile del 1841. Dalla sua tesi, che trattava di filosofia greca, egli intendeva cavare una pubblicazione a stampa, ma la cosa non ebbe seguito: Bruno Bauer, che aveva l’intenzione di appoggiarlo, perse poco dopo la possibilità di insegnare a Bonn.

Altre questioni impegnarono negli anni a venire la febbrile evoluzione di Marx. Il manoscritto restò così inedito fino al principio del Novecento, e conobbe poi una complicata storia all’interno di successive imprese d’edizione delle sue Opere.

Questo spiega il relativo oblio toccato al testo: spesso ricordato, più raramente letto. Di qui l’interesse a riproporlo, rivendicandone l’importanza storica, ricostruendone il contesto e le vicende testuali: quanto avviene appunto in Karl Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, con un saggio di Luciano Canfora (Laterza «Biblioteca Universale», pp. CXXXII-99, € 22,00). La traduzione di Mario Cingoli è ripresa dal volume delle Opere pubblicato da Editori Riuniti nel 1980: e pure nel saggio introduttivo se ne prendono le distanze su qualche aspetto specifico (p. lxiii). Quanto all’apparato, Canfora segue anche in questo caso un approccio molto selettivo verso l’odiernissima «bibliografia» relativa ai temi studiati, della cui inutilità (o insipienza) fornisce a volte saggi feroci. Eloquente il silenzio su altre edizioni della tesi di Marx apparse qualche anno fa, come quella di Bompiani, pubblicata nel 2004 a cura di Diego Fusaro.

La struttura dal volume è indicativa: nell’ampia introduzione la storia del manoscritto e delle sue edizioni è occasione per un dettagliato studio filologico. Si evidenzia anzitutto la natura «ibrida» di un testo che è di fatto una ricostruzione postuma, che combina l’originale dissertazione sottoposta ai giudici di Jena con una revisione, parziale e incompiuta, impostata dall’autore in vista della prevista pubblicazione.

Poi c’è la vicenda delle edizioni a stampa.

Il compito di pubblicare gli scritti di Marx, compresi gli inediti, fu intrapreso prima in Germania, poi in Unione Sovietica (ma il curatore principale non sopravvisse alle purghe staliniane), quindi anche nella DDR (ma l’iniziativa non sopravvisse alla fine dello stato). I diversi progetti ebbero necessità di seguire criteri «ideologici» diversi, per esempio la marginalizzazione della fase idealistica del giovane Marx, e di districarsi tra passaggi politicamente ardui.

Tali fasi, qui ricostruite dettagliatamente, non sono state sempre illustrate con chiarezza dai curatori passati. Nella tortuosa storia editoriale dei manoscritti postumi di Marx, il lavoro su Democrito e Epicuro non è stato da subito studiato insieme ai quaderni preparatòri: ne è derivata una sottovalutazione. Tali materiali, invece, mostrano il metodo con il quale il giovane filosofo lavorava sui testi antichi, e liquidano così la «risibile teoria» che Marx non sapesse il greco.

Il punto di partenza del lavoro, come è noto, sono le posizioni espresse da Hegel sopra gli atomisti antichi, con una valutazione riduttiva di Epicuro. Contro l’idea, classicistica nel fondo, che il pensiero greco avesse esaurita la spinta propulsiva dell’originalità con la grande fase di Platone e Aristotele, il giovane Marx individuava anche nel pensiero post-socratico una fase di enorme interesse, in ragione pure degli sviluppi verso il mondo romano. Ciò corrispondeva al ripensamento avviato poco prima da Gustav Droysen, che individuava il significato storico dell’ellenismo, ossia della fase post-classica della cultura greca.

L’annunciato studio sopra il complesso delle scuole filosofiche ellenistiche non fu mai scritto: nella parte compiuta del lavoro, Marx si interessò all’atomismo antico per il suo carattere materialistico, che aveva avuto un’eredità moderna: come scriverà nella Sacra famiglia, «il materialismo francese e inglese è rimasto sempre in intimo rapporto con Democrito ed Epicuro». Ma il suo punto fu nel rivalutare l’originalità di Epicuro, soprattutto attraverso lo studio di Lucrezio.

Il De rerum natura aveva conosciuto nella cultura tedesca già nel tardo Settecento una fortuna notevole, ma fu proprio avverso al meccanicismo di quell’epoca che mosse la ricerca di Marx. Egli trovò grazie a Lucrezio il modo di riconoscere in Epicuro «il più grande illuminista» del pensiero greco, che aveva saputo teorizzare il superamento del rigido determinismo di Democrito e introdotto un elemento di «libertà» nella descrizione del moto degli atomi. Si creava con ciò la premessa dell’autodeterminazione umana.

Ricondotta nello sviluppo del pensiero di Marx, la tesi assume quindi un carattere non solo erudito, ma anche programmatico: dal problema degli atomi si passa a quello della «liberazione» dell’uomo. Tema importante nelle filosofie post-socratiche, ma che in Marx assunse un esplicito carattere ateistico e di rivendicazione politico-sociale.

Ne è segno il ricorso frequente all’immagine di Prometeo, il «martire» che spezza le catene dell’asservimento umano (come l’Epicuro di Lucrezio infrange la schiavitù della superstizione). Per certo, la sufficienza dei moderni tecnocrati irride tutto il contenuto di libri come questo. Gli antichi, la filosofia, il marxismo, la filologia sono, per loro, solo «giochi di perle di vetro» utili a intrattenere pochi dotti residui.

Frattanto, catene virtuali, più occulte ma non meno pesanti di quelle spezzate dal titano ribelle, tornano a gravare su larghe parti dell’umanità. E solo dai «giochi» degli umanisti (forse non così ininfluenti), non certo dalla idolatrata «tecnica» o dallo spietato meccanismo economico potrà venire, se mai verrà, un nuovo pensiero di liberazione.