E’ costato caro a Marwan Barghuti il messaggio-appello alla resistenza, anche armata, all’occupazione militare e a cessare la cooperazione di sicurezza con Israele, che ha lanciato due giorni fa in occasione del decennale della morte del presidente Yasser Arafat. Il popolare leader di Fatah dovrà scontare una settimana di isolamento totale e pagare un’ammenda di 300 shekel (60 euro), gli ha comunicato ieri il servizio carcerario israeliano. «Scegliere la resistenza armata e globale” – aveva scritto Barghouti – significa essere fedeli alle idee di Arafat e ai suoi principi per cui decine di migliaia di martiri sono morti. E’ doveroso riconsiderare il nostro modo di resistere per sconfiggere l’occupante».

 

Parole che assieme alle dichiarazioni fatte in queste ultime settimane dal presidente dell’Anp Abu Mazen, contribuirebbero, secondo il premier israeliano Netanyahu, ad «incendiare» la situazione e ad aggravare un quadro che potrebbe sfociare in una nuova Intifada. Ad incendiare, e nel nel vero senso della parola, sono di più i coloni israeliani in Cisgiordania. Nella notte tra martedì e mercoledì, denunciano i palestinesi, un gruppo di giovani “settler” ha dato alle fiamme la moschea del villaggio di al-Mughayr (Ramallah). La polizia dell’Anp sostiene che le sue indagini non lasciano spazio a dubbi sugli autori dell’attacco che ha causato gravi danni alla moschea. Gli ultimi anni hanno visto una escalation di attacchi e raid compiuti dai coloni e dagli ultrazionalisti israeliani contro moschee e chiese, in Cisgiordania e a Gerusalemme. Attacchi firmati con la scritta “Price Tag”, ossia il “prezzo da pagare” che gli estremisti presentano ai palestinesi sotto occupazione. Una bottiglia incendiaria, sempre martedì notte, è stata lanciata contro una sinagoga antica a Shafaram, in Galilea dove la tensione resta alta dopo l’uccisione di un abitante di Kufr Kana che aveva attaccato un’automezzo della polizia. La molotov ha provocato danni lievi al sito religioso ebraico.

 

A dare fuoco alle polveri sono peraltro i continui annunci di espansione delle colonie israeliane a Gerusalemme. La municipalità israeliana ha dato il primo via libera alla costruzione di 200 case a Ramot, un insediamento colonico nella zona palestinese della città, occupata da Israele nel 1967. Il progetto è alla sua prima tappa e, secondo le autorità comunali, ci vorranno anni prima che possano aprirsi i cantieri. In ogni caso è un nuovo progetto, che contribuisce a rendere incandescenti i rapporti tra israeliani e palestinesi, assieme alle “visite” dei gruppi ultranazionalisti sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Il governo israeliano è stato criticato, specialmente dalla Giordania, che tutela la Spianata, per non aver impedito le “incursioni” degli estremisti nel luogo dove, secondo la tradizione, sorgeva il Tempio ebraico. Il viceministro degli esteri Tzahi Hanegbi ieri ha dovuto ribadire che Israele non cambierà lo status quo sulla Spianata, oggi sotto il controllo del Wafq, l’istituzione che tutela e amministra i luoghi santi islamici.

 

Non tutti in Israele condividono la linea del governo Netanyahu verso i palestinesi e il loro diritto all’indipendenza. Ieri 661 figure pubbliche israeliane hanno invitato il parlamento danese a riconoscere, quando voterà a fine settimana, lo Stato di Palestina. Tra i firmatari ci sono Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, l’anziano pacifista Uri Avneri, l’ex ministro dell’industria Ran Cohen, la docente universitaria Nurit Peled Elhanan, il vincitore del premio Nobel Daniel Kahneman e Amiram Goldblum, fondatore di Peace Now. La votazione dei parlamentari danesi è stata preceduta da quelle recenti del Parlamento britannico e del senato irlandese. Voti simili sono attesi anche in Francia (a dicembre) e in Spagna. E qualche settimana fa il governo svedese ha ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina tra le proteste di Israele.

 

All’appuntamento con questi riconoscimenti, il più delle volte simbolici ma ugualmente importanti, i palestinesi arrivano divisi. La tensione interna è forte dopo gli attacchi che Abu Mazen ha rivolto due giorni fa ad Hamas, accusato dal presidente palestinese di non aver impedito se non addirittura di aver organizzato gli attentati intimidatori della scorsa settimana a Gaza contro dirigenti del suo partito, Fatah, allo scopo di impedire le commemorazioni per Yasser Arafat. Vacilla, e non poco, in queste ore il governo di consenso nazionale costituito all’inizio di giugno dopo l’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas. A tenerlo ancora in piedi è l’urgenza di avviare la ricostruzione di Gaza, uscita devastata dall’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate. Senza la presenza delle forze di sicurezza dell’Anp ai valichi di frontiera e il coinvolgimento pieno di Fatah e del governo, i donatori internazionali terranno congelati 5,4 miliardi di dollari che hanno promesso un mese fa.