«Possa questo tribunale prevenire il crimine del silenzio». Non poteva avere slogan più appropriato l’incontro di Roma del 5 dicembre che scorso ha riunito tante ed importanti voci su una questione ormai ai margini. Quella palestinese, che sembra trovare spazio quasi esclusivamente nelle escalation di violenza. Ma la situazione per i palestinesi non è affatto migliorata con l’occupazione israeliana, di cui l’espansione delle colonie illegali è il segnale più evidente e consolidato. Nonostante i negoziati tra Tel Aviv e Ramallah, ripresi a luglio, continuino sotto la supervisione americana, ma senza alcun risultato tangibile.
Ed è in un simile contesto di stallo politico che si inserisce l’iniziativa della società civile, di cui l’incontro di Roma mostra i vari volti. Nella sala delle bandiere del Parlamento Europeo, c’erano la palestinese Leyla Shahid e l’israeliana Nurit Peled El Hanan, due rappresentanti di punta, insieme al francese Pierre Galand, del Tribunale Russell sulla Palestina. Creato nel 2009 su impulso di illustri personaggi,tra cui Stéphane Hessel, il tribunale «popolare» nasce con l’intento di sopperire «all’immobilità della comunità internazionale di fronte alle violazioni israeliane». Un tribunale simbolico, ma che finora ha prodotto numerosi studi autorevoli. Come in quest’occasione, quando il Tribunale ha presentato le sue conclusioni «sulla complicità e la responsabilità dei governi, delle imprese e delle organizzazioni internazionali nelle violazioni di Israele». Violazioni di cui un altro volto ha offerto una diretta testimonianza. È quello di Manal Al Tamini, del Comitato Popolare del villaggio di Nabi Saleh, quotidianamente soggetto a raid e incursioni da parte delle forze israeliane. Una donna, madre di 4 figli, che resiste in prima linea, ogni giorno, nonostante gli scarsi mezzi a disposizione e un contesto patriarcale al quale lei, come altre donne del villaggio, si oppone con coraggio. La sua presenza serve a ribadire l’appello alla comunità internazionale affinché sostenga in ogni modo possibile la resistenza nonviolenta palestinese, che mai come oggi necessita di un concreto sostegno.
Ed è sempre all’esterno che viene rivolto l’altro appello, il più importante. Quello per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi. L’occupazione israeliana è «uno dei più eclatanti esempi di detenzione di massa che mirano a distruggere il tessuto nazionale e sociale del popolo palestinese»: a introdurre la campagna è Moni Ovadia, una delle voci ebraiche più critiche verso Israele. Tra gli oltre 5mila palestinesi in carcere oggi un nome è emerso a livello nazionale e internazionale. È quello di Marwan Barghouti, per quasi due decenni della sua vita nelle carceri israeliane, tra cui gli ultimi 11 anni. È il simbolo della missione del popolo palestinese per la libertà, una figura che unisce anziché dividere e un convinto sostenitore della pace basata sul diritto internazionale. A testimoniarlo c’è anche l’ambasciatrice dello stato di Palestina in italia, Mai AlKaila, lei stessa ex prigioniera. La sua importanza è tale che Barghouti è stato definito più volte il «Mandela» palestinese. Così lo scorso 27 ottobre la campagna è stata lanciata proprio da Robben Island, dalla cella in cui per per 26 anni visse Madiba, spentosi proprio il 5 dicembre, emblema della lotta contro l’apartheid e ogni forma di razzismo. Una lotta, questa, che continua ancora oggi in Palestina, nonostante tutto.
Al termine dell’affollato incontro è stato costituito un Comitato Italiano per la Campagna internazionale.

Ne fanno già parte, oltre ad AssopacePalestina, Cgil, Arci, Fiom, Libera, Fondazione Lelio e Leslie Basso,Pax-Christi, Rete RadieResh, Un Ponte per, La Comunità Palestinese in Italia ed altri. Tra le prime firme d’adesione Gugliemo Epifani, Massimo D’ Alema, Nicky Vendola, Ettore Scola, Citto Maselli, Luciana Castellina, Don Luigi Ciotti, Gino Strada, Tommaso Di Francesco, Domenico Gallo.

Per info e adesioni: freemarwanitalia.gmail.com