In quest’ultima opera della canadese Martine Desjardins, la prima tradotta in italiano, è questione di perturbante. Come Das Unheimlich attiene al familiare e allo stesso tempo a ciò che deve restare nascosto, la protagonista di Medusa, edito in Italia da Alter Ego (pp. 228, euro 17), deve restare nascosta dallo sguardo dei suoi, da quello degli altri financo dal riflesso dei suoi stessi occhi. Medusa è costretta a camminare a testa bassa, non ha mai conosciuto l’affetto dei genitori e delle sorelle, vivendo celata anche nella propria casa finché verrà rinchiusa in un istituto per ragazze con malformazioni, lontano dal villaggio e prossimo a un lago misterioso abitato da spiriti e da meduse.

Ciò che non deve essere guardato – e che nell’esordio del romanzo viene coperto da una frangia troppo lunga, da una schiena sempre più piegata e da occhiali oscuranti – brilla invece nell’attenta traduzione di Ornella Tajani, che declina in italiano i più svariati neologismi a identificare ciò che non si può guardare, le Mostruosità, e quindi neanche nominare.
Rivelando l’inventività di una lingua capace di torcersi secondo desiderio, Martine Desjardins riprende il mito di Medusa e le interpretazioni freudiane per mostrare come il femminile, e nello specifico il corpo della giovane protagonista, fungano da detonatori di quel già noto perturbante. Nella ragazza questa detonazione genera l’autoconsapevolezza e l’impoteramento, ribaltando la reazione d’angoscia d’evirazione predetta da Freud.
Medusa è una donna e il suo rapporto al perturbante può essere guardato, come suggerisce Monica Farnetti, dall’angolo della differenza: «Il mostro, figura della differenza per antonomasia ha cercato però – e ha trovato – l’amicizia delle donne, che nella differenza da tempi remoti dimorano e in essa consistono, paradigmi esse stesse di mostruosità da quando vige il topos della donna come significante dell’anomalia e insieme quello della differenza come marchio di inferiorità».

È proprio quando riesce ad accogliere la mostruosità della sua differenza che il mostro risplende. Come ne Il riso della Medusa (1975) di Hélène Cixous, Medusa si osserva e si riconosce, trovandosi bella. Liana Borghi parlava di rovesciamento della lettura di Freud «traducendo la risata gioiosa di Medusa in una sfida vincente al patriarcato». Per la nostra Medusa si scansa il patriarcato degli orridi «Benefattori», facendo ritorno a quel corpo nascosto, confiscato.

Ella ritrova il volto della Gorgone scolpito nella pietra di una fontana: «aveva la fronte battagliera, il naso da rapace, la bocca carnivora; il viso arcaico sembrava in preda a una rabbia incontrollabile, d’origine uterina. Con gli occhi sputava la sua rabbia contro un destino che l’aveva trasformata in mostro e vomitava vendetta su chi osava guardarla. Era terrificante, eppure non mi suscitava alcun terrore. Piuttosto, mi è sembrata familiare, e le ho sorriso come avrei sorriso al mio riflesso in uno specchio».

Nelle pagine del suo romanzo la protagonista sembra passeggiare, infelice, attraverso le tappe del più classico romanzo di formazione. Crescendo si trasforma. Tuttavia la crescita della ragazza non la conduce a una docile e rassegnata maturità ma all’acuirsi e all’esacerbarsi di una rabbia vendicativa e generativa di nuove consapevolezze. Può parlarci dei doni della collera di Medusa?
Il romanzo è, in effetti, una lenta vittoria di Medusa sulla vergogna, che la rende schiava del giudizio altrui. Questo viaggio deve passare prima attraverso il confronto dei propri occhi, che non ha mai osato guardare in uno specchio, accettando il loro aspetto, e infine rivelandoli a coloro che li ritengono mostruosi. Questa rabbia è quindi soprattutto un’affermazione di sé, uno sgarbo ai criteri della bellezza femminile, una grande liberazione.

«I benefattori», gli uomini che perpetuano le torture nei confronti delle giovani ragazze non solo rappresentano ma incarnano, a guisa sadiana, i poteri istituzionali della città in cui il romanzo è ambientato. In quali modi il potere esercita la sua influenza e tramite quali ingiunzioni riversa la sua violenza sulle donne e sui loro corpi?
Tutto il potere viene esercitato infantilizzando chi si vuole dominare. I benefattori mantengono le loro protette in uno stato di dipendenza e ignoranza che assicura loro il controllo assoluto. La loro violenza si maschera nella forma dei giochi, il che consente loro di ridurre al minimo l’impatto traumatico sulle vittime e di ripulire la loro coscienza di uomini rispettabili. Il potere patriarcale non è diverso: pone il destino delle donne, dei bambini, degli anziani, degli indigenti e degli esclusi nelle presunte mani benevole di uomini che pretendono di essere gli unici detentori della ragione necessaria per governare la loro esistenza.

Le ambientazioni, in particolare l’istituto e l’attiguo lago mefitico, rivestono il suo romanzo di atmosfere gotiche. Gotiche sono anche le vendette di Medusa, che ricordano quelle della Creatura del «Frankenstein» di Mary Shelley quando pronunciò: «Mi vendicherò delle offese subite e, se non posso ispirare amore, allora causerò paura».
A differenza della Creatura, Medusa non ha cuore, nessun attaccamento è possibile per lei e non brama l’amore. Aspira, invece, a suscitare il desiderio, ed è proprio per rivalsa che distrugge coloro che la rifiutano.

La lingua del suo libro si ingegna a inventare neologismi e volteggia in perifrasi che raccontano le «Mostruosità» di Medusa. Cosa c’è di indicibile negli occhi della giovane protagonista? Cosa di tanto spaventevole e ferino da condurre alla paralisi e alla morte?
Mi sembrava importante che la confessione di un mostro fosse scritta in una lingua contaminata da «difetti» congeniti – da qui i barbarismi, le onomatopee incongrue, i nomi maschili femminizzati, i quebecismi. Da un punto di vista tecnico, questi neologismi mi sono serviti anche per risolvere la ripetizione stilisticamente problematica della parola «occhi», che ricorre molto frequentemente nel testo. Questi neologismi evocano anche gli eufemismi infantili che sostituiscono le parole con connotazioni sessuali, e soprattutto tutti i termini peggiorativi usati per descrivere i difetti fisici delle donne e ridurle al silenzio. Ciò che è spaventoso negli occhi di Medusa, per me, è la trasgressione delle convenzioni estetiche e la denuncia dell’ipocrisia di fronte al potere sessuale delle donne.

Gli occhi della protagonista sono pericolosi. E come nel mito Perseo, pur senza scudo, è immune al sortilegio. Senza svelare troppo della conclusione, può dirci perché questo Perseo ne è immune?
Nel mio romanzo, lo sguardo di Medusa non ha un potere pietrificante, è semplicemente l’aspetto dei suoi occhi che provoca un arresto cardiaco negli uomini abusanti, e che sono in qualche modo vittime della loro sensibilità estetica. Perseo è un ladro che vive ai margini della società, disprezzandone gli standard: non è affatto disgustato da ciò che è marginale, al contrario è attratto da ciò che è irregolare. Può così apprezzare la femminilità atipica di Medusa, e ha l’audacia di gettare su di lei uno sguardo colmo di desiderio.

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SCHEDA. BREVE PROFILO DELL’AUTRICE

Martine Desjardins è nata a Mont-Royal, in Québec, dove vive tuttora. Autrice di cinque romanzi, di cui l’ultimo «Medusa» è tradotto in italiano per la casa editrice Alter Ego (in lizza al «Prix des libraires du Québec»), raggiunge il successo di critica e pubblico con due dei suoi romanzi: «Maleficium» (2009) e «La chambre verte» (2016), ricevendo i premi Sunburst e Jacques-Brossard per la fantascienza e il fantasy. Da segnalare anche «L’élu du hasard». Il suo ultimo e più recente si intitola «Le revenant de Rigaud». Dal 2007 cura la rubrica «Livres» del mensile L’actualité.