Dopo una notte e una mattina di trattative serrate che fanno slittare l’inizio dell’assemblea nazionale di quasi di due ore, nel Pd arriva l’ennesimo accordo fra maggioranza e minoranze. Ma è un accordo fra correnti armate fino ai denti. All’apertura, fra i tumulti della sala dell’Hotel Ergife di Roma, il presidente Orfini, – implacabile nonostante i fischi e i «buuuh» di una platea non aggiornata sugli accordi dei capicorrente – mette al voto il cambio di ordine del giorno. È il contrordine: non si eleggerà un segretario – come chiedeva il reggente Martina per sé -, non si deciderà la data del congresso. «Tutto congelato fino alla prossima assemblea». Si farà la fatidica «analisi del voto», si parlerà del «rilancio» dell’azione del Pd dall’opposizione. Il voto finisce 397 sì a 221 no. Oltre ai renziani, votano sì anche Gentiloni (seduto in prima fila), Franceschini, Martina medesimo. Vota no il ministro Orlando e i suoi.

A QUESTO PUNTO MARTINA prende la parola. Resta ’solo’ un reggente. Come chiedeva Renzi. In cambio ottiene un voto finale sulla sua relazione. Ma mentre parla si fa prendere la mano e spiega che vuole la fiducia piena e il ruolo da leader: «Se tocca a me, tocca a me». Ovazione e tifo da stadio, «segretario, segretario». A metà pomeriggio però la sua relazione viene approvata con 294 sì e 8 astenuti. Molti renziani se ne sono andati per non votargli contro perché, spiegano «non ci fidiamo più di lui, ha rotto l’accordo». Sono rimasti i negoziatori, come Lorenzo Guerini e Graziano Delrio. Ai pasdaràn invece non è piaciuta la sottolineatura del suo dissenso sulla linea del «non dialogo» con i 5 stelle. E qualche altra espressione di emancipazione dal renzismo. Quegli scarsi 300 voti dimostrano che, in caso di conta reale, Martina non avrebbe avuto il numero legale con cui essere eletto segretario. E invece i renziani prima dell’assemblea fanno girare la voce di avere già le firme e i voti per un proprio candidato: è Guerini, che però tratta fino alla fine per evitare spaccature.

RENZI È IL PRIMO LASCIARE una sala che a questo punto si svuota rapidamente. L’ex segretario ascolta solo Martina. Dopo di lui se ne vano Gentiloni e Minniti. Sono stati loro, insieme a Dario Franceschini e Piero Fassino, ad accettare la «resa». Non Andrea Orlando, che resta inflessibile sulla richiesta di un congresso entro l’autunno. E che però alla fine fa buon viso a cattiva sorte: «Oggi sarebbe servito un segretario», dice, fra gli applausi (che la platea elargisce con generosità in cambio dei voti mancati) ma comunque «diamo la forza a Martina perché possa condurre la ripresa dell’iniziativa politica e la costruzione dell’opposizione».

RENZI E I SUOI INCASSANO quello che volevano: intanto non essere indicati come causa dell’ennesima spaccatura proprio nelle ore in cui viene alla luce il governo giallo-verde («Il peggiore che l’Italia avrà mai avuto», dice Fassino). Anche se la platea mette in mostra le mille divisioni e i mille sfinimenti della «base»: «Martina hai sbagliato, sì: a non difendere Renzi», attacca una delegata toscana. «Se stiamo messi così come oggi, nun me chiamate», urla al microfono Pina Coccia da Torbellamonaca.

L’ex segretario non voleva neanche impiccarsi a una data del congresso: non ha ancora un candidato, il «predestinato» Delrio resta renitente alla leva.

LA MINORANZA RACCONTA un altro film. I numeri che Renzi millanta sono «un racconto favoloso, se fossimo andati alla conta vera sul segretario oggi avremmo vinto in modo chiaro», assicurano i deputati vicini al reggente, «Renzi si è comportato da capocorrente di minoranza. Se n’è andato appena dopo la relazione di Martina, ha chiesto ai suoi di abbandonare la platea, ha minacciato di votare contro. Tutti comportamenti tipici delle minoranze».

ANCHE GLI ORLANDIANI contrastano la versione renziana: «Nel Pd si è aperta una fase nuova», assicura Daniele Marantelli. «Martina ha evidenziato una forte rivendicazione di autonomia e annunciato una nuova segreteria», dice Marco Sarracino.

Ma è un reggente. E per di più con la spada di Damocle di un congresso che sarà convocato forse da una nuova assemblea a luglio, di certo quando a Renzi parrà e piacerà.
Insomma, Martina resta, ma il suo posto al Nazareno resta precario. «Ringraziamo il reggente di quello che ha fatto e di quello che farà le prossime settimane», è la chiusura di assemblea del presidente Orfini. Praticamente un epitaffio.