Alla fine la conta c’è stata solo sui giornali. Al Nazareno la direzione del Pd finisce all’unanimità: per le differenze politiche sarà un’altra volta. Maurizio Martina resta reggente, ’regge’ il Pd sulla linea dettata da Matteo Renzi, finché Renzi e i suoi vorranno.

L’idea di sedersi al tavolo con i 5 Stelle a Martina era passata per la testa, avendola pronunciata a più riprese ora non può negarlo, ma «i fatti dei giorni scorsi hanno cambiato le cose. Capitolo chiuso», dice. Il reggente sfuma toni e dettagli sui tre giorni di braccio di ferro fra lui e l’ex segretario, con annessi scontri tra colonnelli. Cala un velo pietoso sull’accusa di «essere stato delegittimato», sull’«impossibilità di guidare un partito in queste condizioni» e cioè con l’ex segretario che gli detta la linea dalla tv e dallo studio di Palazzo Giustiniani.

Al terzo piano del Nazareno, strapieno per l’occasione, nella relazione di apertura Martina adotta la linea di Renzi. Quella che, ascoltata domenica sera da Che tempo che fa gli aveva fatto saltare i nervi. E’ bastata la minaccia di una convocazione del congresso in caso di «spaccatura», lasciata scivolare dal presidente Orfini; è bastato per le minoranze il solo pensiero del ritorno rapido al voto e di liste elettorali gestite di nuovo da Renzi – per interposto renziano – per convincere il reggente a smorzare i toni.
Martina si concede giusto qualche libertà nella rotta tracciata in un incontro a tu per tu con l’ex leader poco prima dell’inizio della riunione (incontro ufficialmente smentito): quella di ricordare la sconfitta del 4 dicembre 2016 ma anche, per bilanciare, «la vittoria del 2014» (le europee del 41%, l’unico successo elettorale dell’era Renzi). Quella di parlare delle cause della sconfitta, fra cui «l’insufficienza della nostra narrazione emotiva», che è un modo rispettoso per dire che l’elettorato li ha lasciati a piedi. Il nuovo Pd non sarà «oltre il Pd» dice, e cioè non sarà macroniano.

Martina mette enfasi sull’appoggio alle future iniziative del Colle: «Lunedì si terranno nuove consultazioni e dovremo avere atteggiamento costruttivo verso la presidenza per affrontare questo nodo complesso. Credo che tanto più oggi dobbiamo supportare l’operato di Mattarella». Ma è una frase già votata in direzione il giorno delle dimissioni di Renzi. Applaude la platea, applaude anche Renzi da un lato della seconda fila dove assiste alla sua vittoria senza condizioni, evitando di parlare per non stravincere. «Le riforme restano un terreno di confronto», dice Martina: sono quasi le contestate parole di Renzi a Raiuno, manca solo Fabio Fazio.
Sfumato il dialogo con i 5S, Martina mette paletti contro un eventuale appoggio a un governo di centrodestra: tanto non è all’ordine del giorno. E comunque il core business dello scontro, la questione della leadership Pd, è un «capitolo chiuso» e per questo la richiesta di Martina è «di rinnovarmi la fiducia, lo chiedo alla direzione fino all’assemblea nazionale». Renzi e i suoi del resto non offrivano altro. Ma s’intende: all’assemblea il nome di Martina non sarà più in campo.

Le minoranze litigano fra loro sul dispositivo da votare, alla fine si voterà la relazione del reggente. Quindi intervengono giusto per autoconvincersi di aver ottenuto una vittoria. Piero Fassino, accusato di aver utilizzato disinvoltamente la parola «scissione» (ha passato la giornata a smentire) chiede su Martina «un voto unanime», ma è una richiesta ridondante. Fra l’altro i renziani fanno circolare le cifre dell’assemblea: su 198 presenti, hanno 115 voti. Il dibattito si spegne: Michele Emiliano chiede di tentare ancora la strada dell’accordo, Franceschini avverte che l’ipotesi non c’è più, Francesco Boccia, dello stesso avviso, avverte che il no al confronto con il M5S «porta al voto». In questo caso però servirà «un congresso vero».

Andrea Orlando prova a rompere la liturgia della finta riconciliazione interna: «Questa è l’ultima chiamata», dice, «o l’unanimità è vera o noi rischiamo di imbarcare moltissima acqua. Se tutti siamo convinti che il mandato a Maurizio è un mandato pieno, alziamo la mano. Altrimenti prendiamoci un giorno in più». Orlando sa che votare la fiducia a Martina sulla linea di Renzi è una finzione, o meglio una resa senza condizioni al capriccio di un ex segretario di fatto ancora leader indiscusso, che non ha deciso il suo successore mentre le elezioni anticipate si avvicinano a grandi passi. Martina ha abbozzato un’ipotesi di lavoro: «Ci serve una riflessione sul nostro posizionamento alla luce del nuovo scenario: una nuova idea di coalizione, delle alleanze che vogliamo promuovere, per far rivivere un centrosinistra competitivo». «Io la domanda se devo riandare alle elezioni con la stessa agenda me la devo fare. O ripropongo i 100 punti così risparmio i soldi della tipografia?», dice Orlando.
In realtà l’idea a cui già al Nazareno si lavora è quella di una coalizione allargata a Leu e al centro, Gentiloni potrebbe esserne il leader. Sono questioni da discutere in un congresso. Ma non è detto che ci sia il tempo per andare a congresso prima delle elezioni.