Dopo l’ufficializzazione della corsa di Marco Minniti alla segreteria Pd – avvenuta domenica a mezzo stampa e tv (un’intervista a Repubblica e un’altra alla trasmissione In mezz’ora di Lucia Annunziata, su Raitre) – ora ai blocchi di partenza delle primarie manca solo Maurizio Martina.

L’ex segretario dovrebbe sciogliere la riserva fra oggi e domani. In queste ore sta componendo la sua squadra, dalla comunicazione ai responsabili di mozione. Ieri Graziano Delrio gli ha espresso il suo appoggio, nella forma retorica dell’auspicio della sua candidatura. Per evitare – ha spiegato – che un congresso tutto giocato fra Minniti e Zingaretti si trasformi in un referendum pro o contro Renzi, ora che «Matteo non è in campo». Il presidente Matteo Orfini sarebbe della partita: il suo dissenso nei confronti dell’idea di «sicurezza» dell’ex ministro dell’interno è di vecchia data. E a fianco di Martina forse potrebbe alla fine esserci anche Gianni Cuperlo, che però aspetta di leggere le piattaforme dei candidati.

La candidatura del segretario uscente all’inizio era vista di buon occhio dai renziani, se non proprio caldeggiata. Perché, era il ragionamento, avrebbe sottratto voti a Nicola Zingaretti. E dunque favorito l’ex ministro dell’interno nel voto fra gli iscritti, tenendo comunque entrambi al di sotto del 50 per cento. In cambio Martina si sarebbe tenuto un ruolo di tutto rilievo: la golden share del ’terzo’ che con il peso dei suoi delegati avrebbe deciso il segretario negli accordi di assemblea.

Ma in questo avvio congressuale al ralenti, le certezze dell’esercito sbandato dei renziani cominciano a sgretolarsi. La corrente del segretario (che nega di averne una anche dopo l’incontro di Salsomaggiore) è attraversata da ormai esplicite pulsioni scissioniste. Non sono pochi quelli che ammettono pubblicamente di non voler restare nel Pd eventualmente guidato da Zingaretti. Renzi a sua volta ha spiegato che si terrà alla larga dal congresso per occuparsi dei comitati civici «Ritorno al futuro». Ieri ha accolto lo slancio di Minniti con cordiale distacco: «Opportunamente Minniti ha sottolineato come la sua storia sia una storia di autorevolezza e indipendenza. Bene! Mi sembra che adesso si possa fare il congresso sulle idee, non su di me», ha scritto nella sua ultima enews.
I renziani contrari all’uscita dal partito vedono con crescente preoccupazione l’attività «parallela» dell’ex leader. Solo un’affermazione significativa di Minniti potrebbe evitare la scissione dopo le europee. E non è neanche certo.

Quello che è certo invece è che un segretario eletto in assemblea, con lo spettacolo poco edificante delle trattative fra le correnti, innescherebbe comunque un pericoloso processo centrifugo nel partito. Dall’esito incerto. E non augurabile.

Per questo ora i renziani vorrebbero evitare la corsa di Martina: «Su quale piattaforma si candida?», è la domanda polemica. Per questo l’ex ministro Calenda, sostenitore di Minniti, ieri si è augurato che Martina «rinunci» alla corsa. E Valeria Fedeli, ex ministra e anche lei schieratissima con Minniti, ha provato a lanciare una proposta: «Se nessuno ottiene il 51 per cento, il segretario sia comunque chi ha preso più voti dagli elettori delle primarie. Solo così superiamo rischio correntismo in assemblea».

Lo statuto non prevede una soluzione del genere, né può essere cambiato ora che l’assemblea è sciolta. La raccomandazione potrebbe essere accolta come patto fra gentiluomini. Ma è caduta nel vuoto.

Oggi intanto si riunirà la commissione per il congresso che sarò guidata da Gianni Dal Moro. Dovrà scrivere il regolamento delle assise e solo dopo, con tutta calma, decidere il timing dei congressi di partito. E infine la data delle primarie. Dovrebbe essere il 3 marzo. Una data non proprio beneaugurante, quasi l’anniversario dalla sconfitta più nera del Pd.