«La decisione che state prendendo è fatale, un errore imperdonabile, avete fatto un accordo per impedire che le primarie si facessero quando dovevano essere fatte e cioè nell’autunno prossimo. Siamo una classe dirigente impaurita che non si consegna al proprio popolo». Nella sala dell’Hotel Ergife di Roma manca poco all’elezione di Maurizio Martina – ovvia, scontata, frutto di un accordo fra capicorrente – quando Roberto Giachetti sale sul palco e svela il trucco. «Cosa dobbiamo davvero aspettare per fare il congresso? Non si può aspettare fino a che non si decide chi lo vince».

IN EFFETTI L’ASSEMBLEA DEM è un gioco di ruolo. Renziani e antirenziani, vecchi e nuovi, se le suonano forte. Ma alla fine va in scena il voto quasi unanime su Martina (7 no e 13 astenuti, il numero dei votanti non salta fuori), che annuncia «l’apertura del percorso congressuale straordinario» e la sua conclusione «prima delle europee». Se ne riparla dopo l’estate con calma. Il Pd entra in modalità pausa.

LO SPETTACOLO PERÒ, diciamo pure il confronto democratico, va in effetti in scena. Renzi parla per primo – per molti in platea la scelta risulta incomprensibile – e subito rivendica la responsabilità di aver spinto i 5 stelle nelle braccia della Lega. Archiviato il refrain «ci hanno votato per stare all’opposizione» stavolta lo dice meglio: «Non potevamo mandare all’opposizione la coalizione che aveva vinto». L’analisi della sconfitta invece è la solita: tutta colpa della rissosità delle «nostalgiche» opposizioni interne che vogliono tornare ai vecchi Ds. «Non le vince le elezioni un partito che litiga fino a una settimana prima del voto». L’ex segretario, ormai senza freni, sferra l’attacco al suo successore Gentiloni, un tempo «l’amico Paolo» oggi sponsor di Nicola Zingaretti. Lo accusa di indecisionismo, confonde le responsabilità: sullo ius soli, sui vitalizi, sui voucher («Abbiamo ceduto alla Cgil»), e conclude con un tocco persino di antropologia politica: «Non è l’algida sobrietà che fa sognare un popolo».

ATTACCA I TEORICI delle alleanze come fossero indietristi cultori del passato: «Ci siamo autoimposti un tema che non interessava agli italiani: abbiamo inseguito per mesi la fantomatica operazione di Pisapia, impostaci da una stampa amica». Qui siamo all’abiura: fantomatica o no, era stato Renzi a dare il la a quell’operazione il giorno dopo della sconfitta del referendum.
Renzi rivendica la linea sui migranti, Minniti ma anche salvataggi in mare. Molte le magliette rosse in sala, come ha chiesto don Luigi Ciotti nella giornata della memoria dei migranti morti in mare. Alla presidenza anche Orfini, sotto la giacca, ha una t-shirt rossa, Martina e Zingaretti hanno scelto una polo. Renzi si fa fischiare citando Macron ma soprattutto Tony Blair. Farà un passo indietro? «Farò la mia parte». Ma la sua linea politica è la stessa del giorno dopo della sconfitta: nessun dialogo con i 5 stelle. «Non sono la nuova sinistra ma la vecchia destra. Sono una corrente della Lega». Mezza platea gli tributa la standing ovation, l’altra metà resta scettica. Gentiloni e Minniti accennano appena un applauso. Più tardi l’ex premier definirà così il discorso di Renzi: «Imbarazzante».

MA STA NEL RAPPORTO con M5S la vera differenza fra Renzi e chi vuole chiudere con lui. Andrea Orlando smonta la tesi dell’opposizione frontale con i grillini con un esempio di scuola (politica): ricorda nientemeno che il governo Badoglio, 1944: «Ci siamo alleati con i monarchici per sconfiggere i fascisti», scandisce. Tornando all’oggi: «Non possiamo prendere in giro chi fa la fila per il reddito di cittadinanza, in molte zone del paese i giovani non hanno opportunità di lavoro». DOPO I FUOCHI ARTIFICIALi di Renzi, tocca a Martina. Ha lavorato tanto al suo discorso, ma ormai è tutto inutile: butta da parte gli appunti e tenta la mozione del giorno del Pride Pd: «Un grande musicista non è chi suona più forte ma chi ascolta di più». Figuriamoci, Renzi si prepara a uscire dalla sala, il dibattito non lo attrae. A Giachetti che chiede il congresso immediato replica: «Non ce la caviamo con una gazebat». Martina ci prova, le frasi che gli escono di getto non sono un capolavoro di verve («Nella battaglia costruiremo il nostro riscatto»), del resto il suo ruolo sarà quello di accompagnare il partito durante il lungo «congresso slow». L’unico candidato in pectore per ora è Nicola Zingaretti. Non parla dal palco (non è membro dell’assemblea), ma benedice Martina, predica di «disarticolare il fronte avversario», leggasi 5 stelle con i quali nella sua regione ha appena approvato la legge sul diritto di studio. E si prepara alla corsa: «Il Pd ha dimostrato che si rimette in moto, è il segnale che tutti gli italiani si aspettavano». Forse non proprio tutti gli italiani.

I RENZIANI MANDANO in giro dello scetticismo sulla sua corsa. C’è della propaganda: quell’area non riesce a trovare un candidato e preme su Graziano Delrio, che però fin qui ha sempre detto no. Ma anche quelli che in teoria dovrebbero sostenere Zingaretti sono incerti: Gianni Cuperlo racconta ad alcuni dei suoi di essere tentato da una nuova corsa alle primarie (è già stato sconfitto nel 2013). Comunque vada, Renzi non rinuncia alla sfida, non è nella sua natura farlo: «Ci rivedremo a congresso, perderete di nuovo».