C’è un fatto nuovo, la chiusura del forno con la Lega. Se verrà confermato solennemente per noi è un punto di novità che il Pd deve essere chiamato a valutare». Le parole di Maurizio Martina erano state concordate una per una dopo l’incontro con «l’esploratore» Roberto Fico. Ma il reggente – con malizia, è l’accusa – non trattiene gli entusiasmi e sottolinea con eccesso di enfasi quel «fatto nuovo» che in realtà per ora è del tutto aleatorio.

In politica le parole hanno una storia, a sinistra quella del «fatto nuovo» è storia di colpi di scena: come quel dicembre ’95 in cui Fausto Bertinotti valutò il «fatto nuovo» delle promesse dimissioni del premier Dini per salvarlo da una mozione di sfiducia. Oggi il «fatto nuovo» potrebbe salvare la legislatura. Ma si abbatte sul Pd.

AL NAZARENO, all’ora di pranzo, i quattro della «delegazia» Pd si incontrano per stabilire la linea da tenere all’incontro con Fico, e poi all’uscita. C’è anche il coordinatore Lorenzo Guerini. Lì parte la prima discussione ruvida: il reggente pretende che sia chiara la disponibilità del Pd «a un confronto programmatico», anche per cancellare quel muro di «no a prescindere» che i renziani hanno pronunciato al momento dell’incarico di Fico, che rischia di scaricare sulle spalle del Pd la responsabilità dell’ennesimo buco nell’acqua del Colle. Orfini e Marcucci frenano, Delrio e Guerini cercano un punto di equilibrio. Alla fine la mediazione è quella di porre tre condizioni: M5S deve chiudere definitivamente «il forno» della Lega, il Pd riparte dai suoi «100» punti di programma e poi valuterà in direzione la proposta che ci verrà fatta. Tutti d’accordo. Ce ne sarebbe una quarta condizione, di cui nessuno parla: no Di Maio premier.

MA APPUNTO DAVANTI alle tv Martina, che in generale non è un allegrone, sprizza soddisfazione. I cellulari degli altri tre, che gli stanno a fianco con facce perplesse, diventano centralini di dubbi e proteste. Secondo Martina per stare nei tempi imposti dalla consultazione il Pd dovrebbe riunire la sua direzione entro giovedì. «Escluso», è netto Orfini. «Abbiamo detto con onestà a Fico che noi dobbiamo tornare in Direzione, poi c’è il problema con i nostri iscritti, i nostri amministratori. Noi abbiamo un percorso lungo per ragionare, se ci dite ’in due giorni’ per noi la risposta è no» spiega in serata Delrio a Porta a Porta. «Se in 50 giorni non hanno concluso niente, non è che in 48 ore il Pd deve risolvere la situazione». Sarà Mattarella a concedere qualche giorno. La direzione sarà mercoledì 2 maggio.

IL PRESIDENTE più tardi, al Nazareno, diventerà il sospettato numero uno di aver sottoposto a pressione «collisti»: Martina in primis,gli altri sospettati sono tutti gli ex dc.

Intanto sui social va in scena la divisione del Pd. Stavolta è vera, il segretario non controlla più tutta la sua invincibile armata. Gli oltre 200 della direzione sono ancora in maggioranza renziani, ma stavolta gli oppositori se la giocano. E nei gruppi parlamentari i numeri cambiano velocemente. Dà una mano alla causa Di Maio: «Se fallisce l’accordo con il Pd si torna al voto».

A PALAZZO GIUSTINIANI intanto Renzi viene descritto come furibondo. Una cosa era scaricare sui 5 stelle l’onere della rottura. Un altro rompersi. Nel Pd il vaso di Pandora si è aperto e anche se in direzione passerà la sua posizione per il no, il partito si mostrerà per come è: spaccato.

ORFINI annuncia (non ce n’è bisogno) il suo no. I renziani di stretta osservanza riesumano l’hashtag #senza di me. Michele Anzaldi attacca: «Davvero qualcuno nel Pd pensa di fare il governo con Di Maio e Casaleggio? Messaggio incomprensibile e umiliante per i nostri elettori». Alessia Morani annuncia il no, « in coerenza con quanto ho sempre affermato», «le distanze sono incolmabili». Pronti al no anche Gozi, Ascani, Margiotta. In rete inizia a circolare un altro hashtag, il più eloquente: #Renzitorna.

GUERINI PROVA A METTERE ordine alla discussione ma a un collega spiega che «la partita è complicata, il percorso è lungo e l’esito incerto, ma bisogna andare a vedere le loro carte, sfidare l’M5S al confronto». Delrio la pensa come lui.

I FAVOREVOLI alla trattativa escono allo scoperto. La ministra Madia è la prima a twittare. Il veltroniano Verini: «Ma come è possibile ridurre il tema del futuro del Paese ad un hashtag? Io stesso, da parlamentare Pd, sento il bisogno di riflettere». Roberto Morassut si lancia in un parallelo storico suggestivo, tanto più in coincidenza con il 25 aprile: «Senza un governo Badoglio e coi monarchici non ci sarebbero state la Liberazione e la Costituzione». Il sì al dialogo di Franceschini campeggia su Repubblica, quella di Boccia è scontato, tra le minoranze il più cauto è il ministro Orlando: «Giusto verificare se si è davvero consumata la possibilità di un accordo tra M5s e Lega», è la precondizione per un confronto «il cui esito è tutt’altro che scontato».

MA PRIMA DEL CONFRONTO con i 5 stelle c’è quello nel Pd. Dalla prima volta dall’era Renzi la direzione non ha un esito scontato, una maggioranza precostituita.