Martin marinaio proletario sempre in viaggio è bello e sfacciato. Le ragazze lo guardano, lo vogliono, un giro di ballo e via insieme sotto alle stelle. Un giorno conosce Elena, ha salvato suo fratello Arturo da un pestaggio, bionda rampolla dell’alta borghesia. Con lei scopre Baudelaire e la lettura, libri su libri scovati dal rigattiere mentre attraverso l’amicizia dell’adorato Russ Brissenden, intellettuale anarchico con l’ironia di Carlo Cecchi, entra nei circoli socialisti subito in polemica con i positivisti ma anche coi borghesi che credono di sapere tutto, pure l’amata Elena, perché hanno studiato – «Devi completare la tua istruzione» gli ripete la ragazza – e invece non sanno niente di quanto accade intorno a loro.
INTANTO scrive perché ha deciso che sarà scrittore, per essere riconosciuto – lo fa per Elena o per se stesso? – con furia e con passione della vita e delle cose che collezionando fallimenti editoriali – «Sono troppo tristi le tue storie» gli ripetono tutti. Non siamo però nella San Francisco agli inizi secolo del romanzo di Jack London nel film di Pietro Marcello – secondo titolo italiano nel concorso e tra quelli più attesi sul Lido. Il suo Martin Eden – magnifico, in sala domani – scritto insieme a Maurizio Braucci, si muove e respira sotto al Vesuvio, in una Napoli pre-bellica e insieme fuori dal tempo, di miseria e di ignoranza, città di porto, di transiti e di conflitti, che la borghesia liberale non vede e non conosce, troppo presa dalla propria superiorità sociale e da una caritatevole generosità.
Martin invece guarda, e quella realtà prova a tradurla in narrazione anche se fa male, se è scomoda perché le sue parole cercano una forma «politica» da opporre allo stereotipo. Dell’evoluzionismo sociale di Herbert Spencer, sua ispirazione, cerca la «traduzione» in soggettività democratica con cui i lavoratori sfruttati fino all’annichilimento possono creare una resistenza collettiva più forte della demagogia anche riformista. Perché individualismo non significa potere del singolo o super-uomo al comando a cui sottomettersi ma libertà responsabile di ciascun essere umano.

CHI È DUNQUE Martin Eden? Un artista che interroga il proprio ruolo, un proletario che alla vita vuole dare voce, e non riprodurla piattamente, una creatura fragile nella sua lotta con le apparenze che in quel bisogno di riconoscimento finisce per smentire se stesso? Di fronte a un romanzo che è un mito, tra i più studiati e tradotti di ogni tempo nel mondo, Marcello utilizza collettivamente l’allenamento all’indipendenza di mezzi e soprattutto di pensiero in questo suo primo grande budget, gira in super 16 e col protagonista, Luca Marinelli, millimetra ogni nervo battito di ciglio emozione per dare vita a un personaggio di eccessi. Del romanzo sceglie non l’adattamento ma la traduzione emozionale nel proprio universo dentro al tempo del cinema e della storia. Potrebbe essere il racconto di formazione del Novecento la vita di questo Martin Eden, intravisto con quasi preveggenza dalla scrittore, della lotta di classe e dei pericoli dell’individualismo nei suoi esiti di atrocità autoritarie o fascinazione per l’uomo forte – il corpo del capo – a cui affidare le proprie sorti. La storia italiana seguita e colta dai finestrini dei treni e nel profilo dei bufali nei campi. Città e campagna, speranze e macerie: i braccianti africani che lavorano la terra, una solidarietà di classe ancora possibile e l’indifferenza della solitudine.

IN CHE EPOCA siamo? Ieri o oggi? Poco importa. Che il controcampo di Pietro Marcello – con la complice bravura al montaggio di Aline Hervé – è il tempo, con gli archivi che diventano il passato del personaggio e di un Paese o forse di un’umanità dove il presente (il nostro tempo?) è più di un semplice segno, di una traccia, di un’allusione, si fa sostanza di un cinema e di un’immagine. Il tempo cinematografico si espande, si contrae, oscilla commuovente nella sua strana tenerezza. Gli archivi sono l’infanzia, i sogni, la parte invisibile: due bimbi che ballano, la sfida impossibile della felicità. E dell’amore. Lo era con Elena? O forse si trattava solo di opportunismo, le regole da seguire, i soldi, il matrimonio, potrà mai accadere che una ragazza ricca sposi quel poveraccio? Il tempo è anche un paradosso, la società dello spettacolo di Martin si appropria fino a svuotarlo, come veliero che si affloscia sul mare. Ne fa un simbolo, lo usa, «Martin Eden non esiste» grida lui, e in questa vertigine lo spazio del singolo intreccia quello collettivo, se ne fa specchio affettuoso e feroce distorto, inciampo, desiderio.

Marcello che è uno dei nomi internazionali del nostro cinema e sin dai primi film – come Il passaggio della linea (2007), a Venezia negli Orizzonti – ha esplorato il corpo a corpo con la contemporaneità, non è regista autoritario, allo spettatore lascia la scelta di muoversi tra le molte piste, e i rimandi che dissemina nella sua messinscena. Il suo è un cinema (raro) che sa ancora essere imprevisto, che sa «guardare» il mondo per reiventarlo ascoltandone i segreti. Che si mette in gioco senza trucchetti né strafottenza, con la semplicità della passione.