Inarrestabile, sempre in movimento, alla ricerca di qualcosa, Pamela (Alina Serban) è giovanissima ma già madre – della piccola Rebecca – e vive insieme alla figlia e la nonna in un villaggio Rom non lontano da Bucarest. La protagonista di Seule a mon mariage – il debutto della documentarista Marta Bergman nella finzione, presentato nel programma di Acid al Festival di Cannes – insofferente verso le scelte obbligate che impone la vita nella sua piccola comunità, ha un piano: trovare un marito nell’Europa benestante che le consenta di essere finalmente libera – di amare, studiare, scoprire il mondo.

Una scelta che però impone di lasciarsi alle spalle la famiglia, la sua stessa bambina – «Ogni scena del film doveva riflettere la lotta interiore di Pamela fra l’essere madre e una donna che aspira alla libertà», dice la regista anche lei rumena ma che da tempo vive a Bruxelles. E in Belgio finisce anche la sua protagonista, a Liegi, dove abita l’uomo che attraverso internet le si «offre» come futuro marito: Bruno. La vera sfida per scoprire la libertà – al di fuori dei cliché sui Rom o sugli uomini soli che cercano l’amore su internet – arriva però proprio nel luogo che Pamela aveva individuato come il suo traguardo, che invece rischia di inghiottirla in un’altra dimensione fatta di regole che a lei stanno strette.

Come è nata la storia di «Seule a mon mariage»?
Avevo già girato molti documentari in Romania, dove sono nata e poi tornata insieme a un amico appassionato di musica tradizionale gypsy. Per questo siamo andati a Clejani – una cittadina vicino a Bucarest famosa per i suoi musicisti – e lì ho vissuto a lungo per girare i miei documentari. È attraverso il racconto delle esperienze di molte ragazze e donne di Clejani che è nato il personaggio di Pamela. E anche la musica è stata fondamentale: ancor prima di girare abbiamo cominciato a pensare alla colonna sonora, alla necessità di portare nel film i suoni tradizionali locali facendo in modo che riflettessero l’evoluzione interiore di Pamela, la progressione dei suoi sentimenti e delle sue emozioni.

Nel film è fondamentale il contributo degli attori.
Quando ho visto Alina è stato subito chiaro che Pamela era lei: aveva lo stesso tipo di energia che cercavo per la mia eroina. Tramite Alina abbiamo anche scelto la location: il villaggio dove è nata ma dove non tornava da tempo. Rebecca è sua cugina, e nonostante non si fossero mai viste prima sono riuscite a costruire il rapporto di grande intimità che si vede nel film.

Anche un suo documentario affrontava le storie di ragazze Rom che cercano marito in Europa.
Per me non è questo l’argomento del film, ma semplicemente il suo punto di partenza: quella di Seule a mon mariage è una storia di emancipazione. Volevo raccontare l’epopea di un’eroina romanzesca, che affonda le sue radici nella realtà ma ne prende le distanze insistendo sulla determinazione nell’inseguire un sogno di libertà. Quando giro un documentario e sono immersa nella realtà cerco di drammatizzarla, mentre in questo lavoro in cui la storia è «costruita» ho cercato di avere un approccio sotto molti aspetti documentaristico: mantenendomi vicina alle persone, costruendo una vera relazione con loro.

Attraverso la storia di Pamela si legge in controluce quella di tre generazioni di donne.
Per me era importante mostrare che la scelta di Pamela avrebbe cambiato il destino delle donne della sua famiglia, rappresentato proprio da queste tre generazioni di donne con un anello mancante: quello della madre, che forse ha intrapreso la stessa strada di Pamela ma senza riuscire a cambiare nulla.