«I muri ci parlano», dice Claire Calogirou, etnologa e antropologa francese che da più di vent’anni studia tutte le forme artistiche che nascono e si sviluppano nelle aree urbane, come graffiti, hip hop, skate. A lei è stata affidata la raccolta e l’acquisizione delle opere per il MuCEM di Marsiglia, il museo delle Civiltà europee e mediterranee che inaugurerà il prossimo 4 giugno, nell’anno in cui la città è capitale europea della cultura. Primo caso di paese del vecchio continente che conduce una campagna di acquisizioni di opere d’arte e oggetti prodotti da writer.
La ricercatrice è stata ospite in Italia di Konfrontiert, il convegno internazionale curato da Fabiola Naldi e Claudio Musso al museo Mambo di Bologna (proprio Bologna è stata fra le prime città europee a ospitare, agli inizi degli anni ’80 un’importante mostra, Arte di frontiera organizzata dalla critica Francesca Alinovi).

«Sui muri, oltre ai graffiti, ci sono le pubblicità, gli stickers – dice Calogirou – le strade sono piene di messaggi. Ci sono street artist che deformano le réclame, spesso più degradanti dei graffiti. Mi piace questo mélange di segni. È vero, la strada è un dialogo e in questo momento ritrova una parte della vita che aveva perduto quando si è sradicato tutto ciò che vi si svolgeva per dare priorità alle automobili. Ora ciclisti, roller, skater e graffitisti si stanno riprendendo e riappropriando delle città».

Il suo approccio antropologico si concentra sui rapporti urbani conflittuali, multiculturali. «Le città oggi vengono fruite dagli abitanti in molti modi diversi», dice. Fra le questioni più dibattute e ancora aperte c’è il rapporto contraddittorio fra graffiti, tag e legalità. «Il MuCEM è un museo delle società, della vita quotidiana in rapporto alla città e all’arte clandestina, che nonostante la repressione gode di ottima salute. È da anni che rifletto sul tema del vandalismo, dell’illegalità in relazione alla street art, da tempo in Francia alcune istituzioni, come le società che gestiscono le ferrovie e la metropolitana, mettono a disposizione pareti o vagoni su cui far lavorare gli artisti. Ma ci sono writer interessati e motivati dall’aspetto dell’illegalità».

Altro dibattito delicato che suscita dubbi e perplessità è quello di un museo che acquisisce opere nate nel contesto urbano, cosa che sembra stridere con il progetto di farle entrare fra le quattro mura di una collezione. «In un museo di antropologia i pezzi rappresentano al meglio la società moderna – spiega Calogirou -. Foto, interviste filmate, oggetti di arredo urbano, riviste, documenti, schizzi, bozzetti, bombolette, copertine di dischi, sono un’arte effimera. Per prelevarli dal loro contesto ho dovuto spiegare agli artisti che ora le opere saranno inalienabili, conservate per sempre. Finalmente un’istituzione è interessata a questa forma d’espressione, il museo conserverà una parte di questa storia e forse la prolungherà. Le prime reazioni degli artisti sono state di stupore e rifiuto, ma sono cambiate grazie al dialogo».

[do action=”citazione”]Fra gli elementi che hanno trasformato questa specifica arte c’è internet, che ha favorito la diffusione delle immagini creando una sorta di omologazione. Ora è più difficile riconoscere gli stili, ma è il risultato dell’evoluzione[/do]

Anche se quello della street art è un movimento relativamente giovane, molto è cambiato negli anni: c’è stata un’evoluzione che Calogirou sintetizza così: «Alcuni graffitisti hanno abbandonato le tag e sono passati ad altre forme di rappresentazione, a volte anche molto lontane dai segni degli inizi. È un movimento in crescita. I writer che conosco non farebbero mai le loro firme su monumenti o luoghi sacri. Fra gli elementi che hanno trasformato questa specifica arte c’è internet, che ha favorito la diffusione delle immagini creando una sorta di omologazione. Ora è più difficile riconoscere gli stili, ma è il risultato dell’evoluzione. Un’altra differenza sostanziale è l’interesse del mondo dell’arte, sempre più graffitisti lavorano su tela per trarne un riscontro economico. Il cambiamento più importante è l’entrata delle opere nel mercato, questo ha modificato il rapporto fra il graffitista e le proprie opere che ora spera di vendere. In passato era un divertimento, uno strumento per prendersi gioco della società, non si pensava sarebbe diventata una forma artistica riconosciuta».

Anche i temi sono mutati, ammette l’antropologa, «non si tratta di rabbia, piuttosto di un sentimento di rivolta generale per le ingiustizie e rivendicazioni contro ogni forma di razzismo. In alcuni, è evidente un impegno sociale, ma è un elemento più presente nei testi dei rapper. Sulla scena hip hop molti protagonisti sono figli di immigrati, ma è una caratteristica soprattutto delle origini».

I graffiti sono un’espressione artistica che nei paesi del nord Africa, dove si sono accese le cosiddette primavere arabe, ha rivestito un ruolo politico e di protesta molto forte. «Il MuCEM deve assolutamente farsi testimone anche di questo – anticipa Calogirou – un museo delle società deve essere un luogo dove dialogare e scambiare punti di vista. Non uno spazio in cui appendere opere ai muri, ma in cui mostrare come i graffiti e l’hip hop possano affrontare anche urgenti temi politici e sociali».

La ricerca dell’antropologa si è focalizzata sui primi dieci anni di graffitismo in Europa, a partire dalla metà degli anni ’80. Tutti gli artisti che ha incontrato sono autodidatti, a differenza delle nuove leve che escono dalle scuole d’arte. Il 4 giugno la sezione del MuCEM dedicata alla street art aprirà con una piccola sezione di muro di Berlino, «indispensabile per un museo di graffiti», specifica Calogirou.

La collezione non sarà esposta prima della fine del 2014, fra i lavori acquisiti una matrice per la stampa di t-shirt dello storico negozio Ticaret a Parigi, punto di riferimento della scena hip hop, foto di opere di Zeus, un pannello con un lavoro di Honnete, una scultura in plastica in 3d dell’artista belga Rekto e un’opera del graffitista francese più quotato JonOne.

In tutti questi anni, Claire Calogirou si è guadagnata la fiducia degli artisti, ha partecipato a mostre e festival nelle principali capitali europee. «Nei prossimi anni vorrei integrare la collezione. Ammetto che non mi piace tutto, ma certi luoghi tristi e grigi, come le aree industriali dismesse, grazie ai colori degli artisti hanno ridato luce a certe zone delle città. So che è una forma d’espressione controversa, che può infastidire, ma ci sono contesti in cui l’effetto è piacevole. E comunque i writer non pensano di degradare la città».

Dopo il finanziamento ottenuto per quattro anni di ricerca per la collezione del MuCEM, l’antropologa spera di riceverne un altro che le permetta anche di venire in Italia. Paese che molti graffitisti le hanno consigliato di conoscere, meta sistematica di viaggi studio.