Fuori dal coro Fabio Rizzo – meglio noto come Marracash, stilizzazione del suo soprannome marocchino per via della pelle olivastra e dei tratti somatici, lo è sempre stato. Siciliano di Nicosia ma di fatto cresciuto alla Barona, quartiere milanese dove i genitori si sono trasferiti quando era ancora un bambino. E proprio raccontando le micro storie di periferia è diventato rapper di professione. «Anche se vivo ancora lì – sottolinea – ho sempre avuto la curiosità di confrontarmi con il mondo esterno e ho capito sin da ragazzo che sedermi sulle panchine non mi avrebbe portato lontano. Sentivo la necessità di imparare da persone diverse». I primi passi li muove con la Dogo band, poi arriva l’Universal l’etichetta per la quale incide l’album d’esordio che porta il suo nome nel 2008 passando per Fino a qui tutto bene (2010) fino a King of rap (2011),il suo più grande successo commerciale.

In questi tre anni il mondo del rap e dell’hip hop è radicalmente mutato, i talenti non arrivano più dai centri sociali ma dalla palestra virtuale del web, entrano nelle classifiche mescolandosi con il pop, vanno a Sanremo e non disdegnano Amici… Un bel problema. Status – uscito ieri ancora per i tipi della Universal, non può non tenerne conto. Diciassette pezzi, molti produttori, tanti ospiti – in ordine sparso Guè Pequeno, Fabri Fibra, Salmo e in una traccia fa capolino Tiziano Ferro: «Trovo sia tra i pochi artisti pop italiani ad avere un respiro internazionale. Avevo Senza un posto dove stare, un pezzo da ballare e un po’ malinconico così ho pensato a lui che ha scritto un testo catturandone perfettamente lo spirito». Status è costruito intorno a loop scuri, ossessivi, molto lontano dalle atmosfere mainstream del rap made in Italy che scala vertiginosamente le hit. Equilibri sottili a cui ha dato un’impronta decisiva il missaggio newyorchese di Anthony Killhoffer, al banco di regia per superstar come Kanye West e Rick Ross.

«Sicuramente quello che ho voluto fare – spiega al telefono Marracash, 36 anni a maggio – è un po’ rischioso. Ma il compito di ogni artista è mettersi costantemente in gioco. Ho passato i primi due anni lavorando su tracce che non mi convincevano, negli ultimi dodici mesi c’è stato il salto definitivo: da una raccolta di canzoni a un album che avesse un messaggio di fondo». In mezzo un viaggio in Oriente e una sosta londinese: «ci sono stato circa quattro mesi, ho affittato un appartamento a Brixton e mi è servito moltissimo. Potevo muovermi liberamente e poi lì il mestiere di musicista è riconosciuto, non come da noi. È come l’approccio alla cultura: è un errore macroscopico non attribuirgli valore, è la ricchezza più grande del nostro paese». Il rapper fa tendenza, si infila in un reality fa da opinionista a un talent…: «Non so se è un bene o un male, non sta a me giudicare: il problema è che molto spesso – e in questo i media hanno le loro colpe – il rap viene messo in un unico calderone. Invece non è così, ognuno ha il suo stile. Nessuno nel rock si sognerebbe di paragonare i Finley agli Afterhours».

Certo la colpa non è solo di parte della critica: vent’anni fa il rap e le posse uscivano dalle periferie con le loro storie estreme, oggi (troppo) spesso si naviga a vista su rime anonime dove amore fa rima con cuore… «Vero ma lo scenario è profondamente mutato. Nei miei pezzi ho sempre mescolato il politico con il sociale e continuo a farlo. Però con l’avvento del web e dei social le notizie viaggiano in tempo reale, così cantare che i politici rubano e il clero è corrotto non ha più senso». Marracash il senso di disagio lo esprime usando metafore e distillando ironia, quella feroce di Crack: «tutto mi fa venir voglia di fumare crack» e sottile di Sushi & Cocaina dove descrive una Milano «troppo veloce, bella e sintetica»: «Ho voluto rappresentare un ossessione, la voglia quasi la necessità di isolarti da quanto ti circonda». E sottolinea: «Crack non parla di droga, è solo per dire che ci sono storie che ti fanno venire voglia di scappare. Non è che se guardi Gomorra in tv ti metti a fare il camorrista o spacci, anzi…».

Fra le attività di Marracash una sua personale etichetta, Roccia Music: «È partito tutto dalla voglia di estendere la mia visione della musica cercando altri artisti che la condividessero. Ne ho scovati parecchi grazie alla rete e sia chiaro che li scelgo per le cose che fanno e le idee che propongono, non per il potenziale commerciale…».