Nel libro del 1925 Ateliers d’artistes Charles Fegdal, raccontando la sua visita allo studio di Albert Marquet, ricorda che questi, nel mostrargli alcune opere della propria collezione – Matisse, Seurat, Redon… –, mormorò appena: «Ce sont des artistes, ceux-là». Ecco figurata la proverbiale asciuttezza di Marquet, il suo totale disinteresse per l’aggiunta in parole, orale o scritta, il suo totale affidarsi alla pittura (e al disegno) quale unica degna espressione di sé. Sophie Krebs, la curatrice della mostra di Marquet al parigino Palais de Tokyo, impronta il suo saggio in catalogo (dal quale abbiamo tratto l’aneddoto di Fegdal) sulle conseguenze di questo ‘mutismo’ nella fortuna critica dell’artista. Molte: il saggio si intitola L’infortune de Marquet. Nato (a Bordeaux) nel 1875, Marquet si è trovato a cominciare in una stagione, la Parigi a cavallo del 1900, carica di teorie e di proclami, la stagione, diremmo, in cui la critica d’arte, sulla strada tracciata da Baudelaire, ha fissato i termini del suo statuto, e per farlo ha dovuto prendere campo come mai in precedenza. Nell’elettrico rimescolarsi delle posizioni e delle opinioni fra simbolismo e nascita delle avanguardie non poteva che trovarsi a mal partito il pittore senza parola Marquet, esattamente all’opposto di Matisse, l’amico di una vita, il fratello senior, che non perdeva occasione, «professore», per teorizzare i termini della sua arte e dell’intera scena. Questa complementarietà di Matisse, sempre generoso di apprezzamenti verso Marquet, ha in realtà aiutato quest’ultimo a restare agganciato a un canone alto dell’arte del Novecento, dal quale sono rimasti esclusi, nell’ambito in questione vale a dire i pittori fauves, figure di rango come Camoin, Manguin, Valtat.
«Il nostro Hokusai»: è stato proprio Matisse a mettere in particolare l’accento sul giapponesismo di Marquet (Georges Duthuit, sempre pronto a superare a sinistra quanto a orientalismi, preferiva apparentarlo invece ai maestri cinesi). In effetti il pittore bordolese aveva fatto propria la formula di Hokusai: «giungere a non tracciare punto che non sia vivente». È in questo che innanzitutto si manifesta il gusto giapponese di Marquet: salvo Picasso (il quale però era insensibile ai richiami dell’ukiyoe) non esiste artista, nei primi anni del Novecento, che abbia meglio inteso la funzionalità della linea; il suo segno grafico si fa immediatamente azione, energia ‘pulita’, libero come è da indugi decorativi, cioè dalla sia pur minima ipoteca di quella cultura nouveau che – richiamandosi anch’essa, ma in senso contrario (floreale), agli incisori giapponesi – aveva stabilito, nell’ultimo tratto dell’Ottocento, i termini di un nuovo modo di guardare, termini ai quali non restavano insensibili diversi fra gli uomini dell’avanguardia, compreso Matisse. Nei disegni schizzati a inchiostro di china, tratti per lo più dalle scene di strada parigine ma anche dai pittoreschi ed equivoci personaggi di teatri di second’ordine, Marquet presenta una specie di Manga occidentale, dove ogni guizzante figurina risponde a un principio di organicità che è quanto di più moderno in quel momento. Giusta dunque la scelta di prevedere in mostra, subito dopo il capitolo degli esordi («il tempo delle accademie»), un nutrito spaccato della produzione grafica, la quale del resto entra in questione anche nel genere maggiore, il paesaggio, che Marquet, insensibile al Sublime, intende animato da presenze umane – scaricatori di porto (i porti sono il suo eden), vetturini, passanti frettolosi – secondo una concisione di segno che a volte si riduce a semplice macchia con gambe. Non è sbagliato riconoscere in queste virgole di umanità qualche collegamento con gli svelti personaggi urbani dei quadri nabis di Bonnard, meno anonimi, più dettagliati, ma altrettanto efficienti nel dare movimento ed esprit alla scena.
Si pone il problema se Marquet rientri a pieno titolo nella poetica fauve. La mostra dà alcune indicazioni in proposito. Insieme a Matisse e agli altri ex-compagni nello studio di Moreau, egli era presente, naturalmente, al Salon d’Automne del 1905, che segnò il lancio della nuova idea cromatica, fondata sull’incastro armonico di stesure uniformi di colore (qui l’ascendente immediato è il pointillisme non dogmatico di Signac) e su una concezione ‘mentale’ dello spazio, che non poteva darsi senza uno studio particolare dell’ultimo Cézanne. Ha ragione Matisse quando, nell’Intervista perduta con Pierre Courthion (Skira, 2015), dice di Marquet «un realista a tutto tondo». Significa che in lui ogni colore mantiene un preciso rapporto con gli oggetti rappresentati, non si fa autonomo in funzione di una relazione «musicale» con gli altri colori, potenzialmente astratta: che è invece esattamente, sin dai suoi primi accostamenti al neo-impressonismo, la scelta di Matisse, la quale condurrà agli esiti ‘decorativi’ che sappiamo; e il discorso vale, più o meno, rispetto agli altri fauves, Valtat soprattutto. Marquet, invece, è in questo senso un ‘a parte’, più prossimo a un ‘antico maestro’ come Corot, che d’altronde era tra i suoi modelli. Non vuole dire che egli si precluda un uso non naturalistico e arbitrario del colore, ma lo fa, più che in funzione armonica, per dare maggiore peso all’atmosfera: si tratta, in definitiva, di realismo potenziato. Anche il proverbiale ‘volo d’uccello’ di Marquet (i suoi capolavori furono per gran parte concepiti dall’alto) non è estraneo a questa propensione realista: trattandosi anch’esso di un portato della lezione giapponese ci si potrebbe aspettare, da un pittore moderno come lui, un utilizzo decisamente più ‘formale’, che agisca sulla concezione dello spazio. Proprio l’idea aprospettica di Hiroshige, di Hokusai, lo spazio ricavato dalla giustapposizione di fasce orizzontali come può vedersi in tanti paesaggi xilografici di quella tradizione, aveva determinato, insieme ai ‘passaggi’ di Cézanne, la più radicale messa in discussione del punto di vista unico rinascimentale.
In questo Marquet sembra fare un passo indietro: il volo d’uccello è un espediente non per scomporre ma per dilatare lo spazio. Una dilatazione mai panica, però, laica, invece: pittore della Senna, amata in particolare nel tratto che il suo sguardo abbraccia dal balcone dell’atelier in quai Saint-Michel, Marquet si mette all’unisono con la natura, spesso interrogata nell’inclemenza degli inverni parigini, senza mai dimenticare però l’urbanità della sua posizione, la misura d’uomo, secondo l’esempio impressionista. La sagoma oscura di Notre-Dame che si erge, sotto la neve, contro il grigio del «pittore dei grigi» potrebbe dare luogo a una deriva fantastica mentre resta bene ancorata alla finestra di Marquet (eloquente, da parte della Krebs, la dizione «pleinairiste d’atelier»). Non solo, ma sembra che questa identità tutta parigina, come intuì il critico del cubismo André Salmon in uno studio di apertura del 1910, finisca per proiettarsi sui molteplici set geografici visitati dal nostro: Amburgo ha lo stesso aspetto fuligginoso delle vedute della Senna; non si era mai visto, prima di Marquet, un golfo di Napoli così francese, totalmente spogliato di determinazioni ‘esotiche’, e lo stesso si può dire di Algeri.
La Senna indica una delle sezioni tematiche in cui è articolata la mostra (mostra, che si può vedere fino al 21 agosto, allestita benissimo su pareti verde slavato). Si tratta dei ‘luoghi’ di Marquet: oltre la Senna, la Normandia, l’acqua, i porti, le spiagge, Algeri «la bianca» e infine, appunto, le finestre. Ognuno di questi spaccati presenta le opere secondo cronologia. L’ordine cronologico generale non è così importante per il pittore, che dopo la fase più fauve, coincidente soprattutto con gli squilli di colore ‘locale’ sperimentati in Normandia al fianco dell’Havrais Raoul Dufy, si assesta in generale, fino alla morte nel ’47, su una maniera riposata, morbida, screziata da rialzi di tono, vibrata da macchie più accese, nella fascinosa omogeneità di tavolozza, che deve qualcosa, pur nella sua freschezza, alla monocromia desaturata di Eugène Carrière (nel cui libero atelier Marquet era entrato nel 1899 dopo l’apprendistato con Moreau). I pigmenti non sono quasi mai puri, matissiani, come usciti dal tubetto, invece miscelati secondo relazioni finissime, proprie al cercatore di atmosfere. Ma nel secolo di Picasso, non sono banditi i cercatori di atmosfere? In quale modo Marquet è così moderno? Non solo la velocità grafica, ma la capacità di sintesi della visione, l’intuito bruciante delle sue linee di forza: all’interno di queste coordinate è ancora ammesso sognare con le nuances.