Visioni

Markus Imhoof, il mio cinema nasce dalle memorie

Markus Imhoof, il mio cinema nasce dalle memorieMarkus Imhoof nel 1986

Intervista Conversazione col regista di «La barca è piena», narratore del nostro tempo e attraverso la storia. L'esperienza personale, i profughi, il nuovo progetto sulle radici famigliari

Pubblicato quasi 2 anni fa

Ha iniziato a fare cinema negli anni Sessanta: corto e mediometraggi di finzione e documentari, tra cui uno sulle prigioni, Rondo (1968), proibito in Svizzera fino al 1976. Poi, nel 1974, l’esordio nel lungometraggio con Fluchtgefahr, ancora a tematica carceraria. Per giungere nel 1981 alla realizzazione di La barca è piena, ambientato durante la seconda guerra mondiale in una piccola comunità di campagna dove trovano rifugio dei profughi ebrei, che lo avrebbe posto all’attenzione internazionale e alla candidatura all’Oscar per il miglior film straniero. Di lì continua un personale e intimo percorso di ricerca dove la Storia si intreccia con le vicende sue e della sua famiglia – si pensi a Eldorado. Markus Imhoof, nato a Winterthur nel 1941, è una delle voci più coerenti del cinema svizzero contemporaneo e a metà dicembre ha ricevuto a Torino il premio Maria Adriana Prolo conferitogli dall’Associazione Nazionale Museo del Cinema che per l’occasione ha dedicato l’intero numero della sua rivista «Mondo Niovo» all’opera del cineasta elvetico.

«La barca è piena» continua a riguardarci per quanto accade nel mondo a proposito di emigrazioni, gente che chiede riparo, istituzioni che si chiudono in se stesse negando sostegno a chi è costretto a lasciare le proprie terre. Il titolo del film è emblematico. Come fu scelto?
Si tratta di un’espressione atroce, cinica, inventata dal ministro della polizia elvetica durante la guerra, da un partito di destra che affermò che la Svizzera, Paese neutro, era come una barca piena in alto mare e se fosse arrivata altra gente sarebbe affondata. A significare che i profughi ci avrebbero fatti morire. Nell’opinione pubblica questo discorso era molto efficace. Avrebbero invece potuto dire: «Tagliamo il pane in fette più sottili perché tutti possano mangiare». Ma devo aggiungere una cosa. Quando dissero che la barca era piena mio padre, che faceva il servizio militare, tornò in congedo a Natale e mi concepì. Allora vuol dire che nella barca c’era spazio. Io sono la prova che la barca non era piena, che c’era bisogno di gente che remasse. Come racconto nel film, la legge svizzera aveva l’obbligo di ospitare i disertori durante tutto il conflitto e i rifugiati politici, mentre i profughi per motivi razziali non erano considerati tali perché si sapeva che in maggioranza sarebbero stati ebrei. Facevano eccezione le famiglie con bambini sotto i sei anni per cui tante persone mettevano in scena una commedia tragica fingendo di essere una famiglia dove tutto il peso ricadeva soprattutto sui più piccoli. Ma ancora oggi se difendiamo i nostri valori con crudeltà li abbiamo già persi. Ecco la chiave della mia attitudine nel vedere queste cose: dobbiamo essere coraggiosi anche nei momenti di pericolo. Adesso i profughi che vengono dall’est Europa sono accettati perché sono bianchi, donne e cristiani, non fanno paura. Sembra che l’empatia e l’amore diminuiscano più ci si allontana e non arrivino fino in Africa.

Fonte d’ispirazione per «La barca è piena» è stato anche un episodio che ha segnato la sua infanzia quando i suoi genitori accolsero in Svizzera due bambini rifugiati.
Sì, e vivere da bambino la storia di persone venute in Svizzera come profughi, per essere salvati ma poi venire respinti è un’esperienza che non si dimentica mai più. Giovanna arrivò da noi prima della fine della guerra, era una bambina di Milano. Mutti era invece un bambino austriaco che giunse subito dopo la guerra, il padre si era suicidato. Giovanna poi dovette rientrare in Italia, ma negli anni seguenti i miei genitori la fecero tornare. Era il periodo in cui approdavano in Svizzera molti italiani che però non avevano il diritto di portare con sé i figli, essendo ammessi solo i lavoratori. C’è una famosa frase di Max Frisch: «Abbiamo chiamato delle braccia e sono venuti degli esseri umani». Giovanna ebbe un destino tragico, morì perché non era un lavoratore, non poteva stare in Svizzera e infine dovette tornare in Italia dove la famiglia viveva in condizioni di estrema povertà. I miei li aiutarono mandando soldi e viveri, ma Giovanna era sempre malata e non sopravvisse.

Quasi quarant’anni dopo ha riportato in primo piano la questione migratoria con «Eldorado». Ci sono due livelli che si alternano e dialogano. Si raccontano le tappe dei viaggi dei migranti partiti dall’Africa e la storia della sua famiglia attingendo a materiali privati come lettere, fotografie, filmati, scambi epistolari con i parenti italiani di Giovanna.
Ogni mattina leggevo storie di migranti per cui mi dissi che che dovevo fare qualcosa. Con i soldi del mio film precedente Un mondo in pericolo, e ancora prima di avere un progetto definito, decisi di partire e andare a filmare. Mi recai a Roma a parlare con la Marina militare, erano molto interessati a mostrare il modo di lavorare essendo stati criticati di fare i «tassisti» per i migranti. Feci molte ricerche. A Berlino, in una riunione, discutemmo su come procedere e iniziai a piangere. I miei collaboratori volevano sapere perché. Mi era venuta in mente Giovanna. Così gli amici mi hanno costretto a parlare di me. Io non avrei osato proporlo. La mia troupe mi ha dato il coraggio di affrontare quell’esperienza così forte vissuta da bambino.

La memoria nei suoi film è fondamentale.
La memoria è la terra dove cresce l’albero. Ciascuno la porta con sé. È importante rispettarla, conoscerla, mostrarla al fine di creare un dialogo. Tanti non vogliono sentirsi chiedere da dove vengono. Nel mio caso, mi presentano sempre come regista svizzero anche se la maggior parte della mia vita l’ho passata altrove. Nel mio Dna ci sono tanti altri posti: Italia, Inghilterra, Medio Oriente, un po’ di Africa, India, Berlino… Non c’è da vergognarsi da dove si viene, è una base per il dialogo, per incontrare gente che contiene altre memorie. Le memorie sono le biblioteche del mondo. La memoria è qualcosa di molto vivo. Mio padre, che era professore di letteratura e di storia, scrisse un’autobiografia attingendo al passato familiare. E io lavorerò ancora sulla memoria. Il mio nuovo progetto sarà uno scavo nell’albero genealogico della mia famiglia. Una mia antenata era dei Caraibi, da lei il mio goccio di Africa. I miei antenati hanno intrecciato i loro percorsi nel mondo, la globalizzazione non è stata inventata con internet. Ho trovato vari materiali e continuerò le ricerche per raccontare le storie di tre donne compiendo un viaggio in tre secoli: la donna caraibica di cui parlavo, mia nonna con la sua pelle troppo scura e mia mamma svizzera ma nata in India.

Sul suo sito (www.markus-imhoof.ch) è possibile vedere i suoi film. Una sorta di auto-distribuzione.
Prima di tutto c’era la necessità di digitalizzare i miei film in pellicola per preservarli. Una volta compiuto questo passo, ho pensato di caricarli sul mio sito e di renderli fruibili alla visione anche se all’inizio non ci credevo molto. Vedere film su un computer è ovviamente limitativo perché io costruisco inquadrature pensate per il grande schermo, ma è un tentativo per rimanere in contatto con il pubblico, per fare conoscere dei film altrimenti difficilmente fruibili. Un modo, tra gli altri, per comunicare, dare e trovare un senso al lavoro che si fa.

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