Quando le reazioni del grande pubblico sembrano coincidere con quelle dello spettatore ideale bisogna chiedersi se in esse non si nasconda qualcosa che trascende la qualità dell’opera e forse anche l’opera in assoluto: un bisogno profondo, una direzione verso cui tendiamo o, per dirla con una frase fatta, un segno dei tempi. La miniserie televisiva sul disastro di Chernobyl prodotta dalla HBO è un caso emblematico: ha incontrato l’apprezzamento del grande pubblico, nonostante l’angosciosa cupezza e il taglio quasi documentaristico. C’è da chiedersi il perché, al di là del fatto che è ben realizzata.

È evidente che neppure il diffuso risveglio ambientalista può bastare a spiegarlo. Cos’è che davvero ci attrae in Chernobyl? La risposta va cercata nei luoghi di allora, ma come sono ora, a distanza di decenni dall’incidente: avvelenati, abbandonati e recintati, però tutt’altro che morti. Per l’esattezza, va cercata in ciò che spinge molte persone a penetrare illegalmente nella cosiddetta Zona di esclusione, un’area del raggio di circa trenta chilometri al cuore della quale sta l’ex centrale. Le ragioni per ignorare le misure di sicurezza possono essere tante, prima fra tutte lo sciacallaggio. Ci si introduce nella Zona per trafugare di tutto, dai cavi elettrici ai sedili del WC; va bene qualunque oggetto o materiale inquinato possa essere preso e rivenduto nel mondo esterno.

Alcuni di questi sciacalli sono drogati, ma tra loro ci sono molti professionisti. C’è poi chi va in cerca di funghi, chi disbosca abusivamente. C’è anche un pugno di individui che risiedono in pianta stabile, persone perlopiù anziane che non hanno mai voluto lasciare i loro villaggi e la cui presenza viene ormai tollerata dalle autorità. Ci sono inoltre i turisti clandestini, coloro che vengono richiamati dal fascino del luogo. Cercano probabilmente un contatto con il proibito o l’apocalisse, la sensazione di sentirsi fantasmi, visitare il mondo dopo la fine del mondo, un po’ come è possibile fare a Pompei e, in misura ovviamente ridotta, in altri siti archeologici, con la differenza che la Zona non è ciò che resta di un passato remoto; la Zona appartiene ancora al presente e forse anche al futuro.

I turisti sconfinano solitamente una volta soltanto, vivono l’ebbrezza dell’avventura, scattano qualche foto, inclusi gli immancabili selfie con gli sfondi ormai iconici dell’autoscontro invaso dalle sterpaglie o della ruota panoramica, e tornano da dove sono venuti. Poi ci sono gli stalker veri e propri, individui come Markijan Kamyš, l’autore di Una passeggiata nella zona (traduzione di Alessandro Achilli, Keller, pp. 157, € 15,00) che nella Zona è tornato decine e decine di volte, passandoci in totale un anno e senza altro fine fuorché quello di stare in un luogo che ama, a dispetto dei rischi e dei disagi, come è giusto che sia quando si ama davvero. È lo stesso Kamyš a definirsi uno stalker, e malgrado nel suo libro peraltro molto breve il termine ricorra soltanto un paio di volte e senza che mai vengano nominati Tarkovskij né i fratelli Strugackij, risulta difficile, per non dire impossibile non pensare alla Zona di Stalker e al romanzo che ha ispirato il film. Sembrerebbe proprio uno di quei casi in cui la fantascienza e, più in generale, l’arte e l’immaginazione hanno precorso i tempi e la realtà. E non tanto per la somiglianza, pure inquietante, tra la Zona della favola, lascito della visita di una civiltà aliena, e quella di Chernobyl, prodotta dall’uomo e dalla sua rimarchevole capacità di rivaleggiare con le forze più distruttive della natura; quanto per ciò che la Zona è giunta a simboleggiare, per ciò che ha rivelato di noi.

La «Zona è la stanza scura del nostro desiderio rimosso» scriveva qualche anno fa Geoff Dyer in uno dei suoi saggi erratici. Parlava del film di Tarkovskij, ma sono parole che si attagliano perfettamente anche alla Zona di esclusione o almeno al profondo legame – quasi una dipendenza tossica – che Kamyš ha con quella terra malata nonché alla fascinazione che Chernobyl esercita sul grande pubblico. Accomunare l’uno all’altro è certo un azzardo. Kamyš non è esattamente il compendio dell’uomo qualunque. Nessuno spettatore abituale di serie televisive resisterebbe più di due giorni nelle condizioni estreme che Kamyš affronta con una sconsideratezza paurosa, ai limiti del disumano, pur di vivere la sua vita da stalker. Chi fra noi patirebbe il gelo dell’inverno ucraino per dormire tra le rovine contaminate di Prypjat, la città dell’atomo culla del tramontato Sogno sovietico? Chi si porterebbe come scorta dei panini in svendita al supermercato perché prossimi alla scadenza ma comunque non più nocivi dell’acqua della Zona? Queste differenze non implicano tuttavia che Kamyš ci sia estraneo.

Non serve essere eroi multiformi per riconoscersi nelle peregrinazioni di Ulisse, tanto più se l’eroe non fa nulla per marcarsi diverso da noi. A essere onesti, Kamyš non fa molto neanche per sembrare un nostro simile. La sua vita nel mondo normale resta un buco nero. A parte il tempo trascorso nella Zona, di sé ci dice solo che ogni tanto torna in una casa a Kiev. Accenna molto di sfuggita a qualche relazione, nessuna delle quali pare avergli cambiato la vita, sebbene aggiunga: «Non mi dimenticherò mai di tutte le ragazze che mi hanno chiesto di portarle in questa maledetta Zona». Ci rende noto che suo padre è stato uno dei liquidatori di Chernobyl, ma è un aspetto che archivia in poche righe e senza un sentimento apparente, senza spiegarlo né collegarlo in modo diretto alla sua condizione di stalker.

Leggendo Una passeggiata nella Zona, la morte del gatto – e non è una battuta – pare avere inciso più profondamente in questo senso. Il lettore arriva così a condividere la visione che Kamyš ha di sé e di quelli come lui: «A volte penso che non esistiamo. Non ci sono quelle quaranta persone che regolarmente si mettono a vagare tra le paludi… Un tempo c’eravamo, poi ci siamo dissolti tra gli acquitrini, ci siamo decomposti in lenticchie d’acqua, giunchi e luce del sole». E di questo il libro parla, in effetti: di una fusione assoluta con il paesaggio. Tra le tante descrizioni mesmeriche della Zona, Kamyš semina anche qualche consiglio, accorgimenti da usare semmai ci pungesse vaghezza di diventare stalker.

Quel che ci propone però non è un morboso turismo nell’apocalisse, bensì un atto di amore, un annullamento dell’Io, un’immersione mistica in un mondo sospeso dove le cose si concedono nella loro ostile e nondimeno inerme e struggente bellezza proprio perché belle nonostante le offese che gli abbiamo inflitto e perché, come tutti noi, avviate all’armonia finale della consunzione.