Agosto 2020, mar Mediterraneo, 30 miglia a nord di Zuwara. Una piccola imbarcazione gremita all’inverosimile viene avvicinata da un motoscafo libico. A bordo uomini armati. Negli occhi dei rifugiati, l’amara consapevolezza: «Sono poliziotti. Ci cattureranno». Accade il peggio: gli uomini misteriosi sparano sulla gente terrorizzata e sulle taniche di carburante. Almeno 40 i morti, tantissimi gli ustionati. La chiamano «la strage di Ferragosto».

NON È LA PRIMA VOLTA che forze dell’ordine libiche non ben identificate sparano sui migranti in fuga, ma questo episodio impatta in modo significativo sulla competizione di mercato tra i vari scafisti della costa. Anche perché la barca attaccata pare essere del «boss di Zuwara», l’uomo che negli ultimi mesi ha acquisito una incontrastata posizione dominante sulla concorrenza.

All’indomani della strage, lo stesso boss diffonde un suo comunicato tra i migranti: è costernato per l’incidente e bloccherà tutte le sue barche a tempo indeterminato, gli attacchi armati potrebbero ripetersi e lui ci tiene alla sicurezza. Uno scafista etico? «No – sostengono i rifugiati – Non esistono scafisti buoni. Il suo è solo marketing».

Il marketing è fondamentale nel business delle organizzazioni criminali. In tutto il mondo, da Casal di Principe a Ciudad Juarez, i criminali lo sanno. La fortuna del boss di Zuwara deriva dall’immagine di successo da lui propagandata e da un dato statistico: sei viaggi riusciti su sei.

Musa (nome di fantasia) dal nord Europa oggi racconta i mesi trascorsi nelle case dello scafista di Zuwara. Ricorda soprattutto il buio. «Non potevamo accendere luci né parlare a voce alta. Vivevamo stipati, anche in duecento, il bagno era uno, il cibo poco e certi giorni non arrivava. Aspettavamo».

Un trattamento non dissimile da quello subito in lager libici come il terribile Triq al Sikka (finanziato dall’Italia) da dove molti rifugiati provenivano.

«Vi sentivate clienti?», chiedo. Musa scuote la testa, con un sorriso amaro. Con il suo numero identificativo Unhcr sempre in tasca, ha atteso l’evacuazione per tre anni sul pavimento di diversi lager libici. Ma non è mai arrivata. Così ha deciso di pagare un riscatto alle guardie libiche e di affidarsi agli scafisti. «Ero un prigioniero a tutti gli effetti – spiega – e la cosa più terribile è che lo avevo deciso io».

La differenza tra lager e scafisti è la speranza. Il boss lo sa bene e per tenerla sempre viva usa il sistema della «lotteria». Accade di sera: entra nel buio di una delle sue case e reca biglietti da estrarre. Sono le ricevute dei trasferimenti bancari di 1.500 dollari arrivati al suo conto bancario.

È UN MOMENTO drammatico. I prescelti non esultano, salutano in fretta gli amici, consci della possibilità di non rivederli mai più, e vengono trasferiti in un luogo privo di connessione internet, da dove è impossibile consultare un qualsivoglia bollettino meteo. Si parte al buio, in tutti i sensi.

«E’ possibile tirarsi indietro all’ultimo momento?». Ci sono molti racconti di scafisti che caricano a forza migranti sui gommoni. A Zuwara non è così, mi racconta Musa. Una volta un’amica di un rifugiato è riuscita ad avvisarlo che era in arrivo una tempesta. Il ragazzo ha rifiutato di imbarcarsi e ha convinto tutti gli altri a restare a terra.

Il boss si è adirato, ma non ha costretto nessuno. Però il giorno dopo ha fatto sparire la barca e sentenziato che avevano perso la loro occasione. Sono passati mesi prima che si ripresentasse in quella casa. Ha anche minacciato di «sciogliere lì il contratto»: i 1.500 dollari li avrebbe trattenuti per vitto e alloggio. Poi, in qualche modo, la situazione si è risolta.

LA LUCROSA DITTA, forte dei suoi successi, si espande nei primi mesi dell’estate 2020. Entra in un grosso affare: aerei di linea dal Bangladesh e dal Pakistan scaricano in Libia centinaia di migranti che hanno acquistato dalle organizzazione criminali un pacchetto volo + visto libico + barca per l’Italia (ci si chiede se il Governo libico sia coinvolto nel rilascio dei visti). Costo del pacchetto: diecimila euro. Imbarco prioritario a Zuwara, senza lotteria.

Questo, ormai, è l’unico flusso migratorio attivo che passa per la Libia. Nel 2019 la guerra ha invece interrotto bruscamente gli arrivi dei migranti africani. La florida azienda di Zuara apre anche una succursale che vende intere barche, in genere gommoni. I rifugiati che li acquistano possono decidere quante persone far salire. Ma il boss ci tiene a escludere questi viaggi dalle statistiche, perché sono viaggi faidate, privi della sua pianificazione e assistenza. Eppure qualcuno va a buon fine lo stesso.

«Cosa intende per assistenza?». Durante la traversata il boss è in contatto costante con il telefono Thuraya della barca. I suoi gregari trasmettono continui bollettini ai rifugiati rimasti a terra: «Sono arrivati in SAR libica, tengono la velocità di 7 nodi…». Ci tengono a sbandierare competenze che non hanno.

«E le ong?». Il boss di Zuwara le ignora. Le sue barche sono in grado di compiere la traversata in autonomia. Ma troppe volte, per imbarcare più persone, il boss non carica acqua a sufficienza. Ciò che conta per lui è il risultato e se qualcuno muore di sete e non affogato, va bene. Le foto e i video dei migranti esausti e disidratati sbarcati su territorio europeo sono la migliore pubblicità.

E non mancano gli emulatori. Come l’uomo di Khoms. Il successo di Zuwara svuota gli altri porti, soprattutto quello di Khoms, che ha già dei problemi. Nonostante la guerra e il diradarsi – fino a zero – delle evacuazione dell’Unhcr, le partenze da Khoms sono già al minimo, perché i gommoni che partono da lì si afflosciano poche miglia a largo della costa.

«L’uomo di Khoms» è uno dei tanti scafisti della zona. Tenta di risolvere la crisi abbassando i prezzi. Ma non funziona, perché nel frattempo uno dei suoi gommoni è rimasto cinque giorni in mare poco a largo di Khoms e una bambina di quattro anni è morta di sete. Così ricorre alla pubblicità ingannevole.

SOLOMON (nome di fantasia) ha trascorso alcune settimane presso «l’uomo di Khoms». Oggi è in Europa, ma non grazie a lui. Ricorda gli annunci trionfanti dello scafista: «Il gommone che abbiamo mandato ieri è ora a Malta. Ce l’hanno fatta». Poi gli applausi di tutti. Non c’è invidia tra i rifugiati, il successo di uno dimostra che c’è una speranza per tutti. Pochi giorni dopo, un altro gommone e un nuovo annuncio: «Sono a Malta!», con lettura ad alta voce di sms di ringraziamento in stile feedback di Tripadvisor.

Gli affari si riprendono un po’, i rifugiati riacquistano la speranza, i prezzi salgono. Ma tutto ciò dura poco perché… non è vero. I due gommoni non sono mai arrivati a Malta e gli sms sono falsi. L’inganno si scopre quando tornano alcuni dei passeggeri, con segni di torture sul corpo e 400 dollari in meno, pagati alle guardie del lager di Khoms (finanziato dall’Italia) in cambio della scarcerazione.

Tornano anche i gommoni, perché la cosiddetta guardia costiera libica li ha prontamente rivenduti proprio all’uomo di Khoms. I più disperati ripartono con lo stesso gommone della prima volta. Solomon se ne va a Zuwara.

Il nuovo scafista di Zuwara è un poliziotto. Guardia costiera, polizia e milizie libiche sono coinvolti da sempre nel business degli imbarchi dalla Libia verso le coste europee. Mercoledì Bija, ufficiale della cosiddetta Guardia costiera libica e noto trafficante di esseri umani, è stato arrestato dalla Rada Special Forces, milizia attualmente accusata di riduzione in schiavitù di migranti catturati in mare.

Nessuno si stupisce troppo quando, all’inizio dell’estate, un poliziotto di Zara avvia il suo business. Applica gli stessi prezzi del boss di Zuwara. Ma i suoi gommoni sono sgonfi e pericolosi. Se ci fosse un Tripadvisor degli scafisti, otterrebbero zero pallini. Via Whatsapp, i rifugiati fanno circolare appelli a evitarlo. Gli affari vanno male. Poi avviene la strage di Ferragosto. I cinque misteriosi uomini armati. Gli spari. I morti. Gli ustionati. Il boss di Zuwara che ferma i suoi viaggi. La paura. L’incertezza.

COME IN OGNI BUSINESS gestito da organizzazioni criminali, la posizione dominante si conquista con il kalashnikov, con la paura. Se sia stato o meno il poliziotto di Zuwara a organizzare l’attacco, non lo sapremo mai. Ma, di certo, il marketing della paura funziona. Il messaggio passa: per uscire dalla Libia bisogna rivolgersi a uomini delle forze dell’ordine libiche.

«Come fermare il business criminale degli scafisti?». Secondo Musa, i migranti salgono sui gommoni perché l’Onuli ha abbandonati in Libia. I corridoi umanitari, sicuri e legali, possono annientare in un lampo un traffico illegale che provoca migliaia di morti l’anno e che arricchisce i criminali da due lati: quello illegale del pizzo pagato dai gommoni alle guardie costiere libiche e quello legale dei finanziamenti europei.