Pubblicato nel 2000 negli Stati Uniti dopo che diversi suoi frammenti erano circolati in rete creando una prima, ampia comunità di lettori, Casa di foglie è il romanzo di esordio di Mark Z. Danielewski, newyorchese, figlio di un regista d’avanguardia e fratello di una cantante che ha adottato il nome d’arte «Poe». Raramente esordio letterario ha provocato una reazione altrettanto entusiasta: c’è chi ha accostato Danielewski alla generazione di autori – Wallace, Vollmann, Powers tra gli altri – che propone una revisione del postmodernismo dall’interno e nel rispetto di diversi suoi assunti teorici; chi ha sottolineato il carattere interdisciplinare della sua prospettiva, che coniuga mito, antiromanzo, letteratura di genere, cinema, architettura e filosofia; chi ha salutato Casa di foglie come un capofila della cosiddetta letteratura ergodica, termine coniato dal critico Espen J. Aaarseth nel suo libro Cybertext per includere quelle opere che richiedono al lettore un impegno fuori della norma e al contempo l’abbandono del modello di lettura tradizionale – consecutivo e da sinistra e destra del foglio – e un avvicinamento proattivo all’oggetto libro.

La prima traduzione italiana di Casa di foglie uscì nel 2005 per la collana Strade Blu di Mondadori, nell’ambito di un catalogo che includeva molti tra gli alfieri della nuova narrativa americana, da Vollmann a Palahniuk, ed è stata firmata direttamente dall’editor che ne aveva acquisito i diritti, Edoardo Brugnatelli, affiancato da altri due professionisti dell’editoria, Francesco Anzelmo e Giuseppe Strazzeri. Nonostante un risultato di vendite tutt’altro che disprezzabile, il libro era sparito dalle librerie e dai radar dei lettori, fino a quando l’editore romano 66th and 2nd non ha deciso di ripubblicarlo, in un’edizione pregevolissima e perfettamente conforme all’originale e con una traduzione nuova di zecca e di grande efficacia, firmata da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti (pp. 760, € 29,00).

Prima di avventurarsi nell’individuazione di modelli o di filiazioni, è bene cercare semplicemente di spiegare che cosa sia Casa di foglie, partendo dai tre livelli distinti e interdipendenti dei quali si compone. Prima di tutto, e molto banalmente, il romanzo di Danielewski è la storia della casa in Virginia dove si trasferisce una famiglia composta da Will Navidson, fotoreporter da zone di guerra e Premio Pulitzer, sua moglie Karen Green, irrequieta ex modella, e i due figli Chad e Daisy. Le ragioni della decisione di lasciare New York per una casa in campagna sono affidate alla voce dello stesso Will, che, dopo aver riempito ogni angolo e gli spazi esterni di telecamere per trasporre su pellicola la sua nuova vita, dichiara: «Forse per via del mio passato tutti si aspettano qualcosa di diverso, ma ho pensato che sarebbe bello vedere delle persone trasferirsi in un posto e iniziare ad abitarlo. Stabilirsi, mettere radici, interagire, magari iniziare a capirsi meglio a vicenda. Personalmente vorrei solo creare un piccolo avamposto per me e la mia famiglia. Un luogo dove si possa bere limonata in veranda ammirando il tramonto».

Se lo scopo di Will è mettere radici, non avrebbe potuto scegliere una casa più sbagliata per farlo. Dopo pochi giorni, nella sua camera da letto appare una porta che affaccia su una sorta di ripostiglio e su un’altra porta, tramite la quale si accede direttamente alla stanza dei figli; subito dopo Will scopre che, inspiegabilmente, le misurazioni interne della casa sono più ampie di quelle ricavabili dall’esterno, e che il gap si allarga ogni giorno, finché non appare un lungo corridoio scuro in fondo al salotto, che teoricamente dovrebbe sporgere verso il giardino formando una sorta di ala laterale, e che invece sembra fatto di nulla. Di qui la decisione di avventurarsi nel corridoio stesso, prima insieme al fratello Tom, poi affidandosi a esploratori professionisti: scelta che condurrà a una sequenza inarrestabile di catastrofi.

Oltre a restituire il mistero della casa di Ash Tree Lane, Casa di foglie è la storia della Versione di Navidson, il docufilm che Will gira prima e monta poi, per raccontarne l’esplorazione, e che si trasforma in un oggetto di culto e nella fonte di un infinito dibattito critico. Ma è anche la storia del profluvio di riflessioni, note e commenti sul film raccolti da Zampanò, un uomo anziano e cieco dal passato misterioso, che vive in un vecchio appartamento di una zona degradata di Los Angeles. Ed è, infine, la storia del manoscritto che Zampanò ha faticosamente assemblato e che, chiuso in un baule, viene recuperato e trascritto da Johnny Truant, giovane scapestrato e senza famiglia che ha il corpo coperto di cicatrici e si guadagna da vivere lavorando in un negozio di tatuaggi.

I tre livelli del racconto (il film di Navidson, il commentario di Zampanò e l’effetto devastante del lavoro di trascrizione sulla psiche già instabile di Johnny) si traducono formalmente nelle stratificazioni e nelle stranezze anche tipografiche del libro, tra pagine scritte su più colonne, note che esplodono e divorano il testo portante costringendo chi legge a continui andirivieni, cancellature, variazioni grafiche, appendici fotografiche. Fino a quando non ci si trova a chiedersi se la «casa maledetta», nella quale esplorare equivale quasi inevitabilmente a perdersi, non si sia incarnata proprio nel libro che si ha davanti, trasformandosi così un’autentica Casa di fogli.

Questa sinossi del romanzo, inevitabilmente lacunosa, consente di individuarne alcuni padri nobili, e di collocarlo in una lunga tradizione che prende le mosse dal Manoscritto trovato a Saragozza, di Jan Potocki, e nei giochi e follie grafiche del Tristram Shandy, per arrivare direttamente a Borges (omaggiato nella figura del cieco Zampanò ma anche in ripetuti richiami testuali, come quello al suo «Pierre Menard, autore del Chisciotte») e al Nabokov di Fuoco Pallido, anch’esso concepito come lungo commentario a un poemetto, che si trasforma in un appassionante gioco narrativo.

È però qualcos’altro a rendere Casa di foglie diverso da tutti i modelli già elencati, inducendo a trovare in D.F. Wallace il punto di contatto più profondo: che Infinite Jest, il romanzo monstre pubblicato nel 1996 (quattro anni prima dell’esordio di Danielewski), possa rappresentare una delle fonti di ispirazione primarie per Casa di foglie è un’ipotesi del tutto ragionevole. In fondo, entrambi i libri, oltre a condividere la mole e la complessità dei livelli di lettura, ruotano attorno a un film: nell’uno, la misteriosa pellicola che dà il titolo all’opera di Wallace, girata da James Incandenza e oggetto di una caccia spietata da parte di spie e di una sequela di personaggi misteriosi; nell’altro, ovvero il romanzo di Danielewski, l’opera sfuggente e geniale di Will Navidson.

Anche dal punto di vista della struttura e della forma, le assonanze tra i due romanzi sono evidenti: si pensi, per esempio, all’uso innovativo della nota a piè di pagina come luogo in cui le storie esplodono e si diramano: in Danielewski, questo uso largamente praticato da DFW, viene condotto fino all’effetto paradossale per cui il commentario occupa il corpo del testo, mentre la linea più narrativa – la deriva verso la follia di Johnny Truant – cerca dal fondo della pagina di espandersi e divorare le parole di Zampanò.

Per non parlare di quella che probabilmente è soltanto una coincidenza, il che la rende se possibile ancor più inquietante: Karen Green è il nome sia della moglie di Will Navidson, sia dell’artista americana che, nel 2004, sposò David Foster Wallace, e che nel suo memoir Il ramo spezzato ha rievocato i sei anni di legame con lo scrittore, fino al suicidio di lui.
Ma le ragioni che avvicinano Wallace e Danielewski sono, se possibile, ancora più profonde, e vanno rintracciate in un uso concettualmente innovativo dello sperimentalismo che aveva già segnato la grande stagione letteraria del postmoderno, e che viene riformulato e rilanciato a partire da un nuovo patto con il lettore.

Il termine «ergodico», al netto dei tecnicismi, include al proprio interno l’idea di «lavoro» e di «fatica»: niente di meno è richiesto al lettore per trovare la propria strada dentro opere mostruose per dimensioni, stile, livelli narrativi. Una fatica che, per citare le parole di Wallace nel libro-intervista con David Lipsky Come diventare se stessi, non deve mai essere «ridicolmente sproporzionata rispetto alla soddisfazione che il lettore ne trae», e deve preservare la «magia viscerale» insita nell’atto della lettura, «della serie Cristo santo, che bello leggere. Ora come ora preferirei leggere piuttosto che mangiare».

Come in Infinite Jest, non esiste mai gratuità nella scrittura stregonesca di Danielewski. Il suo gioco con il lettore e insieme con gli stilemi del fantastico e dell’horror, che fanno di Casa di foglie, come ha dichiarato Stephen King, il Moby-Dick della letteratura del terrore, sono sorretti da un intento «mortalmente» serio, evidenziato fin dalla prima frase del romanzo, frase che occupa una pagina intera, quasi a mo’ di epigrafe: «Questo non è per te».

Vale allora per l’intero libro, e per l’avventura alla quale il lettore viene chiamato, il monito lanciato, nell’Introduzione, da Johnny Truant: «Se siete fortunati vi stancherete di questo libro, avrete la reazione in cui Zampanò aveva sperato, lo definirete inutilmente complicato, ostinatamente ottuso, prolisso – parola vostra –, assurdamente concepito, e ne sarete convinti, lo metterete da parte – anche se sento dire ‘da parte’ e mi vengono i brividi, perché che cosa riusciamo mai a mettere da parte, in realtà? – e andrete avanti, mangerete, berrete, sarete felici e soprattutto dormirete sonni sereni. Ma è possibile anche che non vada così».