Ciuffo impomatato, eloquio estremamente pacato, Mark Ronson è ormai da un decennio un deus ex machina della scena pop sotto molteplici vesti: dj, produttore autore in proprio. Vanta un curriculum infinito di collaborazioni celebri: Lily Allen, Christina Aguilera, Adele, Estelle e soprattutto Amy Winehouse per Back to black, glorificato da sei candidature ai Grammy e tre statuette vinte. Non c’è da sorprendersi perché è nato e cresciuto in mezzo alla musica, con il padre appassionato di funk e il patrigno Mick Jones, celebre chitarrista dei Foreigner che aveva sposato in seconde nozze la madre.

«Vorrei però sottolineare – spiega l’artista londinese ma newyorchese a tutti gli effetti visto che nella grande mela si è trasferito giovanissimo – che ho scoperto la musica in modo autonomo. Da ragazzino mi sono appassionato all’hip hop e al rap ascoltando le radio newyorkesi. Così ho trovato un mio percorso personale». La black music – dalle variazioni sixties abbracciate nel disco con la Winehouse fino al new soul- è al centro di tutto, e Uptown special (Columbia/Sony) il suo quarto lavoro scritto e prodotto insieme a Jeff Bhasker e inciso tra Londra, Memphis, Los Angeles e New York in diciotto mesi, lo definisce pienamente.

Progetto a cui hanno collaborato fra gli altri Bruno Mars (il singolo Uptwown funk impazza da mesi nelle hit di mezzo mondo), Stevie Wonder, Andrew Wyatt e in cui ha coinvolto per i testi lo scrittore premio Pulitzer Michael Cabon: «L’avevo incontrato alla presentazione di un suo libro. Un anno dopo gli ho mandato una mail chiedendogli se era interessato a collaborare con me. Lui ha accettato e ha cominciato a spedirmi i testi finiti. Poi insieme a Jeff ci siamo ritrovati a Venice in California e abbiamo iniziato a sperimentare. A volte siamo partiti dai testi abbozzando melodie, a volte il processo è stato inverso».

Nile Rodgers è fra le figure che più hanno influenzato Mark, la chitarra di Uptown funk sembra quasi un assolo di Mister Chic…: «Lo conosco da quando avevo sei anni, perché amico dei miei genitori. Quando ho iniziato come dj mettevo dischi nei locali di musica black e per forza entri in contatto con quel mondo. Quel suono è ormai nel mio dna». Uptown special descrive anche la scena newyorkese dei novanta, come è cambiata da allora?: «Tutti gli artisti ricordano il periodo in cui hanno iniziato come il migliore. I protagonisti all’epoca erano gente come Puff Daddy, Biggie e nei locali girava una fauna molto eterogenea: rapper, modelli, atleti e anche spacciatori, tutti realmente interessati alla musica. Ora Ny è piena di bellissimi locali ma la musica non riveste più un ruolo preminente…».

Ronson fa parte della nuova genia di produttori diventati anche star, come Pharrell Williams: «Sono un suo grande fan, dai tempi dei Neptunes e poi dei N.E.R.D. però lui è un vero frontman. Io ho vuto successo ma mi vedo più nel ruolo di produttore che ogni tanto sente la necessità di sviluppare idee impossibili da portare avanti con altri». E come nasce una giusta collaborazione? «In maniera spontanea, di solito abbiamo gusti differenti, spesso sono gli opposti a trovare un punto di incontro. Certo poi può succedere – come a me è accaduto producendo i Kaiser Chiefs (Never Miss a Beat, 2008, ndr) che pure amo molto, di non essere alla fine soddisfatto del risultato». In Cracktime in the pearl l’armonica di Stevie Wonder: «Non avrei mai pensato in vita mia di lavorare con lui, ma ero arrivato a scrivere una melodia pensando che la sua armonica sarebbe stata perfetta. Ho spedito il pezzo al manager ed è iniziato tutto. Si parte sempre dalle canzoni perché sono loro a dettar l’evoluzione del lavoro e quindi le eventuali collaborazioni. Costruire a tavolino un disco non è mai una buona cosa…».

L’avvento del web ha rivoluzionato il modo di fare musica: «Ci sono due aspetti. Non è un segreto che internet abbia distrutto la discografia tradizionale in termini di vendite. Ma al contempo è vero che grazie alla rete è possibile ascoltare suoni e artisti originali o scoprire un produttore di talento che vive dall’altra parte del mondo. In questo senso internet ha una forte capacità di democratizzazione».