Passare una buona parte dell’estate con l’opera cinefila e irriverente di Mark Rappaport è la proposta che fa il Filmmuseum di Monaco attraverso una retrospettiva online appena iniziata e che durerà fino al 13 luglio sul suo canale Vimeo (Filmmuseum München). Ogni settimana, un nuovo programma viene reso disponibile gratuitamente per la durata di quattro giorni e poi si passa al successivo.

Il primo programma sarà online fino a venerdì 29 e comprende Rock Hudson’s home movies (1992) e il corto Blue streak (1971). Una scelta che permette di entrare dalla porta principale nell’universo eclettico e queer di un videasta e teorico del cinema che, nell’arco di una carriera ultra-quarantennale, ha realizzato opere narrative, sperimentali, documentari, corti e lunghi affermandosi pian piano come uno dei pionieri del cosiddetto «videosaggio» o «critofilm», quella pratica audiovisiva che riflette sulla storia e le forme del linguaggio cinematografico utilizzandole.

Rock Hudson’s home movies è ormai un classico del videosaggio, annoverabile tra pietre miliari del metacinema gay come Race d’Ep (1979) di Lionel Soukaz e Lo schermo velato (1996) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman entrambi tratti da testi scritti rispettivamente da Guy Hocquenghem e da Vito Russo.

RAPPAPORT, invece, (ri)scrive direttamente con il cinema una contro-storia gay della Hollywood classica a partire dalla figura di un divo che quand’era sulla cresta dell’onda nessuno avrebbe mai sospettato «lo» fosse. Un attore incarna e dà voce a Hudson che come in un discorso autoanalitico dall’oltretomba ripercorre, finalmente libero da ogni tabù, alcune scene della propria filmografia, dalla serie di commedie con Doris Day e Tony Randall ai melodrammi di Douglas Sirk, fornendone una lettura tendenziosamente omoerotica o che ne esplicita sottotesti omosessuali effettivamente presenti.

Un’opera ironica e poetica che dispiega le possibilità anche didattiche del video, dal fermo-immagine al ralenti, per condurre un’analisi sullo sguardo, sui filtri che lo condizionano e sulle prospettive che lo espandono in direzioni inattese. Ottima, perciò, l’accoppiata con Blue streak, titolo di vent’anni precedente che interroga il «pornografico» (blue movie significa proprio film a luci rosse) attraverso i suoi punti di contatto e contrasto con il «sessuale» e l’«erotico» stabilendo un rapporto non ridondante e quindi stimolante tra immagini e parola: bastano alcuni corpi nudi in una stanza per eccitare chi li guarda oppure è necessario un passaggio immaginario che può anche prescindere dal visivo come accade a chi si stimola pronunciando parolacce? E basta il testo o ci vuole anche il contesto perché una certa parola diventi parolaccia?

L’IRONIA è una delle cifre stilistiche distintive dell’opera di Mark Rappaport che si muove tra il dire e il contraddire, tra il mito e la sua scomposizione, tra il desiderio d’illusione e l’innocenza perduta. Diverse le fictional biography o biographical fiction nel programma del Filmmuseum: da Becoming Anita Ekberg (1-4 giugno) sull’ascesa della star svedese a Sergei/Sir Gay (10-13 luglio) sul giovane Eisenstein passando da John Garfield (19-22 giugno), Conrad Veidt (3-6 luglio) e From the Journals of Jean Seberg (5-8 giugno). In quest’ultimo, siamo nuovamente di fronte a un’attrice dalla carriera turbolenta di cui Rappaport, a differenza di quanto avvenuto recentemente nel flaccido biopic di Benedict Andrews con Kristen Stewart, non ritiene si possa raccontare altra storia se non quella presente negli stessi film da lei interpretati. «Le sequenze cinematografiche sono in grado di raggiungere un’accuratezza biografica che un’autobiografia si può solo sognare» dice il film. L’idea è di servirsi della finzione e, in particolare, del senso «ottuso» delle immagini cinematografiche per rivelare il reale dell’esperienza. Ma l’esperienza di chi?

I RACCONTI bio-cinematografici di Rappaport in fondo non sono altro che la narrazione del suo stesso rapporto con le star del cinema attraverso i personaggi che hanno interpretato. È stata l’abitudine di comunicare con i personaggi sullo schermo televisivo come fossero presenti nella realtà ad averlo ispirato. L’invenzione del videoregistratore gli ha poi permesso di trasformare tale pratica in una vera e propria modalità narrativa, un po’ come accade ne Il mistero del cadavere scomparso di Carl Reiner in cui Steve Martin interagisce con sequenze di noir anni Quaranta.

Per Rappaport «quel film sembrava scritto con una mano sulla tastiera e l’altra sul telecomando del videoregistratore». Le sue fictional essai a volte sembrano quasi fan fiction in cui il fan inventa storie con i propri beniamini, come nel recente Max & James & Danielle (1-4 giugno) che Adriano Aprà incluse nella retrospettiva dedicata al critofilm al Festival di Pesaro nel 2016. Lì, il montaggio consente all’autore di realizzare il sogno di far recitare insieme James Mason e Danielle Darrieux, entrambi attori in diverse opere di Max Ophüls, ma mai nella stessa.

Come racconta lui stesso nell’autofiction Mark Rappaport: The TV Spinoff (29 maggio-2 luglio), la sua pratica cinematografica nasce attorno al 1966 nell’underground newyorkese insieme a filmmaker come Jonas Mekas o Yvonne Rainer e si sviluppa attraverso opere girate con budget minimi o inesistenti nel suo appartamento di Soho.

DI QUELL’EPOCA sono drammi e metadrammi come Casual Relations (8-11 giugno), Local Color (22-25 giugno), The Scenic Route (29 maggio-1giugno), Imposters (29 giugno-2 luglio), in cui la passione per la Hollywood classica lo spinge già a immergere le mani nella materia cinematografica, nei suoi stilemi, nei suoi blocchi narrativi per manipolarli, trattarli, scomporli e ricomporli come se desiderasse penetrare il segreto impalpabile e sempre sfuggente dello schermo. In un momento in cui il cinema non si può ancora godere in sala, l’idea del Filmmuseum di proiettare un’opera che nasce dall’esperienza della visione privata pare particolarmente azzeccata.