La notizia è giunta nelle redazioni italiane lunedì, a pomeriggio inoltrato, del tutto inaspettata, attraverso un paio di tweet: «Mark Hollis è morto». A rilanciarla sono stati l’accademico Anthony Costello, cugino acquisito di Hollis, e il regista di video musicali Tim Pope. Per un po’ siamo rimasti increduli e abbiamo sperato in una delle tante fake news che inondano la rete, ma purtroppo è tutto vero Mark Hollis è morto, aveva 64 anni! A dare la notizia ufficiale, alla rivista Pitchfork, ci ha pensato il giorno dopo il manager storico del musicista inglese, Keith Aspden, rivelando che Hollis si è spento dopo una breve malattia per la quale non è stato neanche ricoverato. Di lui si erano perse le tracce, musicalmente e non solo, da anni, e forse per questo a molti, specialmente ai più giovani, il suo nome non dirà molto, ma bastano pochi titoli per far comprendere quale altro big lo show business del rock abbia perduto: Such a Shame, It’s My Life, Today, Life’s what You Make It. Sono solo alcuni dei brani creati dalla mente di questo piccolo grande – e schivo – genio inglese.

HIT
Nato a Londra il 4 gennaio 1955 Hollis si avvicinò alla musica nel 1977, in piena era punk, fondando una band, The Reaction, che non andò oltre un demotape registrato per la Island Records. Ma la svolta arrivò qualche anno più tardi quando incontrò il bassista Paul Webb e il batterista Lee Harris con i quali fondò quella che sarebbe stata la «sua» creatura, i Talk Talk. Nel 1982 vede la luce il primo album, The Party’s Over, che mette in evidenza il gruppo grazie a un sound tipicamente new wave e legato alla scena New Romantic tanto da essere accostati ai Duran Duran. Ma il vero successo doveva ancora arrivare, e fu una bomba.
Il secondo lavoro, It’s My Life, uscito proprio a febbraio di 35 anni fa, lanciò i Talk Talk nel firmamento pop con singoli indimenticabili e indimenticati, la title-track e Such a Shame, i cui video entrarono in rotazione continua nelle tv musicali di quegli anni. Il suono della band era già cambiato e il synth pop degli esordi lasciava spazio a un pop più complesso e sperimentale basato sulla sua particolare vocalità, quasi nasale, e su un altro tratto distintivo, già presente su The Party’s Over, il basso melodico pieno di glissati di Paul Webb. Oltre ai brani più noti, l’album conteneva gemme di pura armonia come Renée, Tomorrow Started e Dum Dum Girl, con le prime due diventate presto un must nei loro concerti dal vivo, con versioni intime e delicate, come quelle presenti in alcuni bootleg e nel loro unico disco live, registrato all’Hammersmith Odeon di Londra del 1986 ma uscito nel 1999, e come quelle a cui chi scrive poté assistere nel 1984 al Piper di Roma.
Dopo un disco come It’s My Life s arebbe stato facile ricalcare la via maestra del grande successo proponendo un album che ne riprendesse i cliché, ma per Mark Hollis non c’è mai stata una strada da seguire, se non quella della sua testa e del suo sentire. E così a distanza di un paio d’anni ecco The Colour of Spring a spingere ancora più avanti le idee musicali del leader. Il pop di facile presa – per quanto potesse esserlo quello dei Talk Talk – è sempre più lontano, le composizioni si fanno più complesse, i brani più lunghi e dilatati, le orchestrazioni e gli arrangiamenti, con l’apporto del «membro» non ufficiale Tim Friese-Greene alla produzione (già presente peraltro nel precedente lavoro), si arricchiscono di sonorità acustiche, e l’unico punto di continuità sembrano essere le magiche melodie vocali che Hollis riesce a disegnare. Ciononostante The Colour of Spring funziona anche commercialmente, con il singolo Life’s what You Make it – con il quale fece anche un’apparizione al festival di Sanremo – che raggiunge i primi posti delle hit internazionali e cattura l’attenzione di un pubblico eterogeneo.
Ma il bello, e le sorprese, dovevano ancora arrivare. In The Colour of Spring erano presenti alcune tracce, come April 5th o Chameleon Day, che rappresentavano un vero stacco, anche rispetto al resto dell’album, con un mood minimale e cupo, ed è da quelle sonorità che prende corpo il successivo disco dei Talk Talk, Spirit of Eden, disco in cui Hollis, sempre più coadiuvato da Tim Friese-Greene, cambia totalmente le carte in tavola, abbandonando definitivamente anche quel tanto – o poco – rimasto di legame con la musica «pop». L’album si apre con un brano, The Rainbow, che supera addirittura i 9 minuti di lunghezza, e per una band nata nel solco del synth pop rappresenta un unicum senza precedenti. Jazz, minimalismo e ambient fanno la loro comparsa, armonica e tromba appaiono strumenti imprescindibili per il sound che Hollis sta cercando di creare, momenti di calma e rilassatezza lasciano improvvisamente spazio a fragorosi innalzamenti della temperatura sonora, qualcosa che anni dopo molte band, dai Bark Psychosis ai Tortoise, dagli Slint ai Mogwai, ebbero a riconoscere come influenza fondamentale. Insomma, era nato un nuovo genere, il post-rock.

SILENZI
Passeranno tre anni prima che Hollis e i Talk Talk – ormai con l’abbandono di Paul Webb rimasti un duo -, tornassero a far parlare di sé. Nel 1991 la band pubblica quello che sarà il loro quinto e ultimo lavoro, Laughing Stock. La linea è ormai tracciata e da lì non si torna indietro. Il sound è consolidato, una sorta di tristezza e di cupezza avvolgono l’ascoltatore, molti fan della prima ora dimostrano di aver dimenticato i loro beniamini, sebbene altrettanti abbiano ancora la voglia di seguire le orme di questo strano personaggio chiamato Mark Hollis, che a dispetto della fama e dei soldi ha scelto la libertà, la libertà di essere sé stesso, di creare ciò che piace a lui, fregandosene di compiacere gli altri. E anche la critica si divide, c’è chi stronca il disco e chi lo esalta (sarà riscoperto solo anni dopo) ma commercialmente la china è definitivamente in discesa.
Con Laughing Stock si chiude l’era dei Talk Talk e per molti anni di Mark Hollis non si sa più nulla, fino al 1998, anno in cui pubblica quello che resterà il suo unico disco solista, anche se in origine avrebbe dovuto essere il sequel di Laughing Stock a nome della band. Ancora un disco intimo e oscuro, con il primo «suono» – un pianoforte – che arriva dopo 18 secondi di silenzio, un lavoro considerato dall’artista «aperto, pacificante e a tratti straordinariamente bello!». L’album riaccese le speranze dei fan più accaniti di un suo ritorno sulle scene, ma la speranza è andata via via scemando e da allora di Hollis si conta solo qualche presenza come ospite, in particolare in Psyence Fiction degli Unkle e in Smiling & Waving di Anja Garbarek.
Per chiudere questo ricordo vogliamo riprendere le parole di Paul Webb, il vecchio sodale che ha appena pubblicato il suo nuovo lavoro con lo pseudonimo di Rustin Man: «Sono molto scioccato e triste nell’aver appreso la notizia della morte di Mark Hollis. Musicalmente era un genio ed è stato un onore e un privilegio essere stato in una band con lui. Non ci vedevamo da molti anni, ma come molti musicisti della nostra generazione, sono stato profondamente influenzato dalle sue idee musicali all’avanguardia. Lui sapeva creare come nessun altro uno spessore di emozioni con il suono e lo spazio. Era uno dei migliori, se non il migliore». E noi non possiamo che essere d’accordo…