«Mi piacerebbe avere uno studio mobile per poter lavorare e viaggiare contemporaneamente. Da ragazza amavo spostare ogni cosa, anche le più pesanti. Nella mia camera c’era l’intero universo che spesso prendeva nuove forme. Spostavo i mobili da una parete all’altra, li facevo ruotare, li facevo viaggiare nel mio spazio. Usavo la tecnica dell’acqua e sapone sul pavimento e spingevo con forza. A volte capitava che tutto tornasse com’era ma, nel frattempo, quel che sicuramente era mutato era il mio sguardo».

COSÌ L’ARTISTA NAPOLETANA Marisa Albanese, scomparsa qualche giorno fa nella sua città natale, riassume ciò che fin dagli inizi della sua carriera ha caratterizzato la sua ricerca e il suo modo di intendere e di fare l’arte: un continuo spostamento. Nel documentario del 2017, Sguardo nomade, prodotto da Artecinema con la regia della figlia Fiamma Marchione, racconta della messa in forma della sua vita artistica segnata da questa necessità vitale della dislocazione, dell’alterazione, del dinamismo in atto, dell’oltrepassamento di ogni confine e del perenne viaggio migratorio dentro e fuori le mura del suo studio, della sua casa e del suo stesso corpo. Una lenta e paziente stratificazione di ciò che il suo sguardo e le sue esperienze di vita hanno saputo cogliere per disegnare nuove mappe e aprire nuovi orizzonti di senso attraverso l’arte.

NATA A NAPOLI NEL 1947, lì si era diplomata all’Accademia di Belle Arti, in seguito laureandosi in Lettere Moderne all’Università Federico II. Il suo sguardo sulla realtà, sui paesaggi e sui volti che di volta in volta incontrava, venivano rielaborati attraverso linguaggi diversi: prima di tutto il disegno come linea essenziale del tratto, come primo sentiero tracciato dalle mani, poi la pittura, la scultura, la fotografia, le installazioni e l’uso sapiente delle tecniche audiovisive. L’arte multiforme e vulcanica di Marisa Albanese è profondamente politica nella misura in cui ha saputo produrre elementi trasformativi attraverso un contatto profondo con sé e con una continua decostruzione della realtà osservata e vissuta. Era convinta che l’opera d’arte è un luogo da attraversare, da interrogare, da vivere al suo interno.

La sua vasta cultura e la sua grande capacità sinottica le hanno consentito di dare corpo al respiro della sua anima intrisa di luce, di togliere peso alla pesantezza fisica della scultura e di esporre la sua alata forza interiore nella materialità esteriore delle sue opere. Di questa forza ha lasciato traccia in una delle stazioni dell’arte della metropolitana di Napoli (Quattro giornate) con l’installazione permanente del 2001 di quattro figure femminili in bronzo dipinto di bianco che indossano elmi di acciaio e che porta il titolo Combattenti, in memoria delle donne della Resistenza. L’iscrizione latina che chiude l’opera In Girum Imus Nocte Ecce Et consumimur Igni («andiamo in giro di notte ed ecco siamo consumate dal fuoco») fa riferimento a una similitudine tra le combattenti e le falene.

COME QUESTE ULTIME che molto spesso si bruciano con il fuoco da cui sono fatalmente attratte, anche le combattenti mettono a repentaglio la loro vita per la passione della libertà. L’arte è sprigionamento di energia, è restituzione di un carico di intensità e potenziamento dell’invisibile, è distacco e offerta di sé, è sperimentazione e fiducia dell’inatteso. Di fronte alla disgregazione e all’accelerazione illimitata e cieca del nostro tempo cui a ciascuno sembra mancare il tempo di soffermarsi sull’altro, sulle sue sofferenze e disgrazie, sapeva che era necessario ricucire e riaprire il vincolo originario con le cose, con i viventi, con la natura. Il progetto Corpus Comune svolto con alcune persone migranti appena sbarcate a Lampedusa trasforma l’arte in veicolo di una solidarietà universale. Ciò che ci accomuna è la memoria ancestrale del nostro continuo migrare e del viaggio mitico di Ulisse su cui si erge l’Europa mediterranea. Il cuore pulsante dell’azione-passione di questo continuo spostamento è ciò che rende possibile ogni volta di nuovo l’incanto della creazione.