A quasi un secolo dalla sua morte, Transeuropa pubblica Le poesie di un Maledetto («Les poèmes d’un Maudit»), di Mario Scalesi (1892-1922), a cura e traduzione di Salvatore Mugno. Si tratta di un’edizione rinnovata, con un apparato critico più generoso e aggiornato rispetto alla quella del 1997. A Mugno va il merito di esser stato primo a far conoscere in Italia Scalesi, traducendone quasi la metà dei poemi e ricostruendone il tortuoso percorso di fortuna critica da parte dei suoi connazionali. Ma chi sarebbero poi costoro? Di quale nazione stiamo parlando?

Scalesi nasce a Tunisi, in una modesta famiglia di immigrati: il padre è siciliano di Trapani, la madre è metà maltese, metà genovese tabarchina. Scrive solo in francese (ma non per sua scelta), in una Tunisia crocevia di genti, lingue, religioni e culture, alla fine del XIX secolo. «La tua lingua sarà la tua patria»: lo ripetono sempre a sé stessi tutti gli esuli, quando approdano in sponde lontane da quelle natìe. Lo stesso può dirsi per Scalesi, che esule non è, ma vive un isolamento che lo aliena dalla sua famiglia ed entourage sociale. A casa parla solo dialetto siciliano e maltese e non ha la possibilità di frequentare le scuole nostrane, già ridotte dall’aggressiva politica del protettorato francese. Tra un’Italia, «matrigna naturale», che non può accogliere i suoi figli nelle proprie istituzioni culturali, e la Francia che impone con la forza delle leggi la sua lingua e cultura, Mario non ha scelta. Il francese, acquisito a scuola, diventa così la sua patria spirituale: gli «nutre il cervello» facendogli scoprire tutti i suoi tesori letterari.

La sua passione per la lettura, a detrimento delle gioie di una normale gioventù, deve essere stata sicuramente incoraggiata dalle conseguenze di un evento traumatico, all’età di 5 anni: cade da una scala, a casa, e gli si spezza la colonna vertebrale. Sarà l’inizio di un’infermità fisica che lo accompagnerà per tutta la sua breve vita. In Lapidazione risuona un’eco autobiografica: «Ammalato, ho raccontato i miei anni,/ gli stessi di un giovane paria in lacrime,/ in ogni debolezza saccheggiato,/ schernito nei tormenti innumerevoli». Mugno ritiene che, nonostante nella sua lirica siano ravvisabili suggestioni baudelairiane, parnassiane, simboliste e romantiche, Scalesi sembra non facilmente incasellabile in un unico genere. Ciò potrebbe esser visto come un sintomo della sua genialità poetica. A leggere i suoi versi convince l’idea che il poeta non si abbandona ad una «rassegnazione patologica ipocondriaca decadente», che il suo maledettismo non sia un’imitazione modaiola, ma nasca «da una precisa condizione di vita tragica e drammatica in cui convivono istanze e motivazioni sociali storiche e filosofiche».

Nell’ispirazione a comporre le sue liriche non va neanche trascurata l’origine proletaria del poeta: L’epopea del povero è un fortissimo manifesto della lotta e vendetta del proletariato mondiale contro i padroni e, insieme a L’ode al denaro, è di una attualità sconcertante. I suoi accenti di rabbia rivoluzionari anticipano di pochi anni quelli del suo conterraneo Abu’l-Qasim al-Shabbi (1909-1934), il sommo poeta della Tunisia arabofona, di cui Mugno ha curato l’unica edizione italiana de «I canti della vita». Se i versi del secondo sono stati la colonna sonora della rivoluzione che nel 2011 ha rovesciato il dittatore Ben Ali, non meno forti sono le invettive di Scalesi contro i poteri forti: «Avidi finanzieri e voi, incuranti sirene,/ che raffinate il vizio al riparo di una fronte pura, / vi spezzerò i denti con le vostre coppe piene,/ lancerò il fulmine in fondo al vostro azzurro/».

Nelle centinaia di note che puntellano il suo saggio critico, frutto di ricerche approfondite in archivi e biblioteche, Mugno ci riporta qualche scena cruciale della vita di Scalesi, sicuramente degna di una fiction cinematografica. Una notte durante una retata della polizia, viene portato in commissariato. Lo perquisiscono nell’unica tasca non forata, e vi scovano un libro: Les fleurs du mal. «Come», grida il poliziotto, «Tu leggi Baudelaire, razza di piccolo villano zoppo!». E gli getta il libro addosso. Un’esperienza del genere a qualche altro avrebbe fatto scattare un sussulto anti-francese, o magari di rivendicazione della sua italianità. Ma quest’ultima rimane sempre in ombra e suscita in qualche critico l’accusa di scarso patriottismo. In realtà lui in Italia non aveva mai messo piede. Fino al momento in cui i medici decidono di ricoverarlo in un manicomio di Palermo, per crisi nevrasteniche. Lì, in completo isolamento, si spegnerà alcuni mesi dopo, e le sue spoglie saranno conferite in una fossa comune. Nel poema Ai morti ignorati riesce così a prevedere la sua tragica fine.

Scalesi è stato considerato, all’unanimità, dalla critica francese, tunisina e italiana, il pioniere della letteratura francofona del Maghreb. Ne auspica, con forza e dedizione, una rinascita spirituale e intellettuale, ma deve scontrarsi, da un lato con una certa indifferenza degli intellettuali locali, dall’altro con l’orientalismo degli scrittori transalpini e i loro stereotipi, esotici, «incipriati», salottieri, sulle donne nell’Islam e gli harem. Una sezione di poemi, che lui stesso definisce «orientali», è dedicata a personaggi, luoghi familiari, a Tunisi: i minareti, la biblioteca della Medina, il lago Bahira. Nei suoi saggi critici, Scalesi sembra voler rivendicare a sé il ruolo di osservatore interno della realtà vera del mondo tunisino dell’epoca. Ne ha ben donde, ma  la domanda che ci pone la sua opera è: fino a che punto egli conosce la storia e il tessuto sociale del paese che lo accoglie, e a cui sente di appartenere. L’impressione è gli sfugga la Tunisia dell’entroterra, meno toccata dalla colonizzazione europea, italiana, francese e maltese, poco francofona e meno incline ai compromessi con la potenza coloniale. Ciò sembra una palese contraddizione con i poemi sui popoli oppressi. Se avesse vissuto per qualche decennio in più avrebbe forse conosciuto la realtà dello sfruttamento coloniale della Tunisia.

Ma Scalesi sogna solo una repubblica francofona delle lettere e vede nella poesia uno strumento per la ricerca della verità, che rivelerebbe «nettamente agli uomini ciò che sono e ciò che fanno». Il poema, a suo avviso, esprime in modo sintetico tutta l’umanità e deve farlo grazie ad un perfetto equilibrio tra musicalità e senso.  Mugno si cimenta con risultati apprezzabili nella ricostruzione della metrica di alcuni poemi, pur nella consapevolezza che «la poesia è intraducibile». Il rapporto di Scalesi con Dio è travagliato e irrimediabilmente segnato dalla sua infermità fisica: «Contrariamente al Cristo l’ineffabile Salvatore/ che nacque nel presepio e morì Crocifisso/ io sono nato in croce e muoio in una stalla/ dove le strida del bestiame soffocheranno la mia voce». In Minareti, che definisce «fari di fede alimentati da preghiere», l’appello del muezzin gli sembra una domanda posta all’universo. Ma subito dopo, osservando la folla di «atei» che si accalcano alle mura dei santuari, prova pietà per il Creatore. In un’altra lirica, invece, riversa il suo dissacrante sarcasmo verso colui che gli avrebbe spezzato i suoi «vent’anni in fiore». Arthur Pellegrin, il critico francese che fiuta il suo genio e pubblica per primo «les poèmes», nel 1923, racconta di averlo visto, un giorno, poco prima del viaggio Tunisi-Palermo, sola andata. Era ricurvo su uno sgabello il cui legno sudicio luccicava tra le sue gambe storte. Fissandolo con occhi da uccello predatore, il poeta gli dice: «Io somiglio a Quasimodo…Non temete; è un accesso di febbre. La tubercolosi mi rode il midollo osseo».