*** Traduzione di Simone Scaffidi e Gianpaolo Contestabile. La versione originale  ***

Non sono trascorse neppure 24 ore dalla consegna a New York dell’ultimo rapporto della Missione di Verifica delle Nazioni Unite in Colombia quando una delle tue colleghe di lavoro ti ha trovato morto – mio caro amico poeta e giornalista – nella tua casa di San Vicente del Caguán. Quel rapporto doveva raccogliere le tue osservazioni come volontario dell’organizzazione nella regione del Caquetá, ma, proprio come è successo con la tua morte, l’Onu è restata in silenzio.

Ed è questo silenzio, indegno per te e per la nostra realtà, che mi obbliga a scrivere, a cercare di sciogliere con le parole il nodo che mi stringe la gola da quando ho saputo che una corda ha soffocato la tua, fino a lasciarti senza vita la notte di mercoledì 15 luglio.

L’ipotesi del suicidio risulta inverosimile per chi come noi conosce la tua vitalità, il tuo sorriso e anche le tue critiche alla Missione quando un collega si ammalava di dengue e il tempo passava senza che fosse trasferito in un’altra città per ricevere l’attenzione medica adeguata. Ti chiedevi cosa sarebbe successo se ti avesse morso un serpente, se ti fossi ammalato gravemente a San Vicente. Sapevi già a chi ti saresti rivolto se fosse successo qualcosa del genere: non sarebbe stato qualcuno all’interno dell’ONU, perché ti preoccupava che la pachidermica burocrazia ti avrebbe lasciato ancora più esposto a incidenti e malattie.

Questo amor proprio contraddice l’idea che fossi capace di toglierti la vita in un luogo così lontano dai tuoi amici, dalla famiglia, dagli amori e dalla tua Napoli del cuore, dove dovevi tornare il 20 luglio per lavarti di dosso nelle acque del Tirreno tutta la sporcizia che ti aveva rabbuiato nelle ultime settimane.

Qualche settimana fa avevi sbloccato il lucchetto che assicurava la recinzione del tetto che dava sulla terrazza del piccolo edificio dove vivevi, in ottica preventiva, nel caso “che qualcuno” venisse a cercarti. È lì dove ti hanno trovato? No lo so, almeno per ora, perchè non sono mai venuta a trovarti, né a San Vicente, né a Napoli, come ci eravamo detti.

Vedi Napoli e poi muori”, mi ripetevi sempre questa malinconica frase per sottolineare la promessa che ci eravamo fatti nel 2018, quando tu hai lasciato Brigadas Internacionales de Paz e io sono andata in Olanda per respirare un po’ a fronte di una nuova valanga di minacce: al tuo ritorno in Italia sarei venuta a trovarti.

Nonostante il tuo contratto con la Missione doveva terminare il 20 di agosto, qualcosa è successo quel 10 di luglio. Quel giorno hai avuto un’accesa discussione con i tuoi capi, come hai raccontato il giorno successivo a Anna Motta, tua madre, mentre le dicevi che avresti anticipato il tuo viaggio. Ti sentivi disgustato.

 

In questi ultimi giorni hai insistito molto sul fatto che per te non fosse più sicuro rimanere in Colombia e nella Missione. Per questo hai sbloccato quel lucchetto e hai preparato la tua partenza. Mercoledì 15 avresti dovuto viaggiare a Bogotá. Dovevi richiedere il permesso per viaggiare nel volo umanitario del 20 luglio, una pratica semplice da sbrigare per un funzionario internazionale.

Il tuo Whatsapp personale è stato connesso fino alle 22.45 del 14 luglio. Quello che è successo da quel momento fino a che il tuo corpo non è stato ritrovato la mattina seguente, da un’altra ex brigatista e volontaria della Missione, rimane un mistero. L’ho chiamata appena ho saputo la notizia, il 16, per le condoglianze, anche se io stessa stavo annaspando nel pianto. “Mario ti stimava tanto, parlava sempre di te. Sapevo che eravate in contatto” mi ha detto, e io sono riuscita soltanto a chiederle se poteva provare a recuperare dal suo computer le poesie che aveva scritto e che voleva pubblicare in Italia.

La terza settimana di giugno, in una riunione informale a Florencia – capoluogo del Caquetá, dove opera l’Ufficio Regionale (OR) della Missione dalla quale dipende la sede distaccata del Caguán – una collega ti ha accusato di essere una spia.

Lo hai raccontato sorridendo, perché ti sei sempre preso gioco dell’assurdo. Oggi, con il tuo sorriso spento dalla tua violenta e improvvisa partenza, mi chiedo se quello non fosse un primo segnale del pericolo che stavi correndo. Cos’è successo quel giorno, chi ti ha accusato con toni così pesanti, quali provvedimenti ha preso Sergio Pirabal, responsabile dell’Ufficio Regionale, mio ex collega nella Commissione per la Verità in Guatemala?

Sempre sorridendo hai commentato il recente richiamo da parte dell’ONU per aver manifestato il tuo disaccordo nella forma, per te discriminatoria, con la quale la Missione stava gestendo la pandemia. Mentre ad altri funzionari si offrivano viaggi e telelavoro, la norma per i volontari è stata la solitudine e l’isolamento.

Tu eri di quelli che ridono delle cose serie, come quando mi hai confessato che hai pubblicato per una rivista italiana alcuni reportage con uno pseudonimo. In questi giorni, in cerca di piste da seguire, sono tornata ai tuoi articoli ma l’ultimo è di giugno 2018. È chiaro che non hai mai infranto i principi della Missione: quando sei entrato, hai smesso di scrivere.

No. Non credo alla tesi del suicidio per solitudine e depressione che diversi tuoi amici vorrebbero accettare per dare un senso al proprio dolore. E non credo che per fare una autopsia si impieghino 10 o 20 giorni. Forse per le analisi tossicologiche, ma gli esami forensi dovrebbero essere già pronti e dovrebbero essere resi pubblici dall’Istituto Nazionale di Medicina Legale.

So dei tuoi malumori interni nei confronti di un’organizzazione che nel 2019 nel suo rapporto ha dedicato soltanto un paragrafo di sei linee al bombardamento militare nel quale sono morti 18 bambini e bambine reclutate dalla dissidenza delle Farc, dove si è infierito su alcuni corpi giá morti, un evento che ha determinato le dimissioni dell’allora ministro della Difesa, Guillermo Botero.

So che hai documentato altri casi del genere, come la dislocamento forzato delle famiglie dei bambini uccisi e dell’assassinio di altre persone. So che ti dava fastidio la leggerezza dei toni dei rapporti dell’ONU, la complessa relazione di alcuni membri della Missione con l’esercito e la polizia, la contrattazione di civili che avevano lavorato per le forze militari, la passività di questa organizzazione di fronte ai bombardamenti contro i civili nel sud del Meta [NdT, regione a nord del Caquetà] e l’aumento degli omicidi selettivi degli ex combattenti delle Farc.

Da mesi aspettavi l’attivazione di una terza allerta preventiva della Defensoría del Pueblo per la situazione di San Vicente del Caguán. Questa settimana, Mateo Gómez Vásquez, coordinatore del SAT a livello nazionale (NdT, Sistema de Alertas Tempranas, Sistema di Allerta Preventiva), mi ha confermato che all’incirca tra un mese verrà resa pubblica l’allerta, che si concentrerà sull’aumento delle cellule dissidenti delle Farc al comando di Gentil Duarte e sulle nuove dinamiche del conflitto in questa regione del paese.

Ma questa volta l’allerta arriverà troppo tardi. Secondo l’ultima conversazione che hai avuto con tua madre, il 10 luglio ti sei messo in “un guaio” con i tuoi capi, non ho dubbi nell’affermare che sia stata la causa detonante che ha scatenato il tuo suicidio simulato.

Da una settimana il tuo nome gira e rigira nella mia testa insieme alle espressioni “investigazione esaustiva”, “immunità diplomatica” e “strane circostanze”.

Mi fai male al cuore, Mario Paciolla. Da brigatista mi hai salvato la vita. Oggi c’è solo un modo per saldare questo debito: cercare la verità sulla tua morte.

*Claudia Julieta Duque è giornalista e attivista per i diritti umani. Dal 2001 per il suo lavoro di indagine e denuncia in relazione a casi di desaparicion, reclutamento forzato e infiltrazione di gruppi paramilitari negli apparati statali è stata oggetto di minacce, intimidazione e vigilanza. In differenti occasioni è stata costretta ad abbandonare il suo Paese, la Colombia, per l’alto rischio che stava correndo.