l 15 luglio 2020 le Nazioni Unite comunicano alla famiglia di Mario Paciolla che il corpo del loro familiare è stato ritrovato senza vita, lo classificano come suicidio e chiedono ai genitori se sono interessati a far rimpatriare la salma. Sono passati oltre nove mesi da quel giorno, più di 270 giorni in cui sono state formulate diverse ipotesi sulle cause della morte. Sono state aperte due inchieste, una in Colombia e una presso la Procura di Roma, sono finiti sotto indagine i poliziotti che hanno permesso il presunto inquinamento delle prove, sono state fatte promesse e dichiarazioni di disponibilità a collaborare da parte delle istituzioni italiane e colombiane, ma nessuna novità ufficiale sul caso è emersa durante questo lungo periodo di attesa.

La Procura di Roma sta portando avanti l’indagine internazionale affidata agli agenti del Ros e ha ritenuto opportuno non condividere le informazioni raccolte tramite l’autopsia del medico legale Vittorio Fineschi, i reperti raccolti sul campo e gli interrogatori ai membri della Missione di Verifica dell’Onu per cui lavorava Mario Paciolla, per non rischiare di compromettere il lavoro investigativo. Dalla Colombia, oltre al referto della prima autopsia che descrive parte della scena del delitto e le ferite trovate sul corpo di Mario Paciolla, sono trapelate solo informazioni ufficiose e non si conoscono i risultati di ulteriori accertamenti  o dell’indagine riguardante gli agenti di polizia.

ll silenzio e la discrezione sono anche gli elementi che in questi mesi hanno caratterizzato la strategia comunicativa delle Nazioni Unite. Mario Paciolla era assunto come International Specialist all’interno del programma United Nations Volunteers, posizione che richiede un’esperienza internazionale e un curriculum eccellente ma che inquadra il lavoratore in una posizione gerarchica molto bassa. Secondo la giornalista investigativa e amica di Paciolla Claudia Duque, uno dei motivi delle frizioni tra Mario e la Missione Onu era stato anche il trattamento diseguale nei confronti dei lavoratori delle Nazioni Unite inquadrati come “volontari”.

In nove mesi l’Onu non ha fornito spiegazioni pubbliche sull’accaduto, né in forma privata alla famiglia. Quando sollecitato dai giornalisti il portavoce del Segretario delle Nazioni Unite ha manifestato e ribadito la collaborazione dell’organizzazione con le autorità italiane e colombiane. Non è ancora chiaro inoltre se si sia proceduto a sollevare dall’immunità diplomatica i funzionari che potrebbero, attraverso omissioni o inadempienze, essere coinvolti nella vicenda. Il responsabile della sicurezza della Missione, Christian Thompson Garzòn, prima persona accorsa sulla scena del delitto è stato al centro di diverse polemiche perché secondo la giornalista Duque avrebbe ripulito la stanza dove giaceva il corpo di Paciolla e requisito i suoi dispositivi elettronici. Tale comportamento, se confermato, appare in contraddizione con il compito del responsabile della sicurezza della Missione che dovrebbe essere al corrente delle linee guida previste dalle Nazioni Unite in caso di morte di un lavoratore. Nel “Handbook for Actioning in Case of Death in Service”, il documento del 2011 che illustra tali procedure, viene specificato che i membri delle Nazioni Unite, in caso di morte di un loro collega, dovrebbero assicurarsi che la scena del delitto non venga manomessa e sono tenuti a chiudere a chiave la stanza in attesa dell’arrivo della polizia e delle autorità competenti.

Nel frattempo la famiglia Paciolla supportata dall’incessante lavoro dei propri legali, da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico, continua la sua ostinata ricerca della verità e della  giustizia, chiedendo a chi ha conosciuto Mario di raccontare, di far emergere cosa è successo nei giorni e nelle settimane precedenti alla sua morte violenta, per capire cos’è che lo ha messo sotto pressione, lo ha convinto a comprare un volo per l’Italia e a scappare, come sostengono i genitori, per salvarsi e ritrovare la tranquillità di un luogo sicuro.