Viatico alla rassegna «Altre visioni» che si svolgerà a Roma fino al 23 agosto al Teatro India (in collaborazione con il Teatro di Roma) il ritorno di Mario Martone su un luogo per lui topico, che ha il sapore di un indiamento pensando anche all’atmosfera che vige in Capri Revolution. L’occasione è buona questa sera per rivederlo, cioè per tornare su uno dei film più importanti degli ultimi anni, che sarà introdotto da Martone stesso insieme a Francesca Corona (consulente artistica per il Teatro India) e Cristiano Gerbino (direttore artistico dell’arena).

Torni al teatro India dopo esserne stato il fondatore e maggior sostenitore più di vent’anni fa. Qual era l’importanza in quel momento di un posto del genere e cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
È stata una delle esperienze più importanti della mia vita oltre che inaspettata in quegli anni, visto che in Teatro di Guerra avevo attaccato proprio l’esperienza dei teatri stabili. Gianni Bogna mi chiese di diventare il direttore dello Stabile di Roma con l’obiettivo di ridefinire o rivoluzionare quel sistema. E credo di esserci riuscito, se penso che abbiamo portato all’Argentina spettacoli che prima erano impensabili, come Genesi di Raffaello Sanzio. Ma accettai l’incarico prevedendo di dare allo Stabile di Roma una seconda sede in cui si potesse fare un teatro libero dal punto di vista dello spazio, in cui ci fossero più sale, anche all’aperto, al di là di una visione frontale. Individuato il luogo fu un’impresa incredibile per quanto breve: sono stato direttore dello Stabile di Roma due anni solamente perché poi questa rivoluzione provocò delle reazioni forti e il sistema mi espulse. Adesso invece, tutta una serie di cose che introdussi allora sono ampiamente ammesse, fanno parte del patrimonio dei teatri stabili di oggi. Il teatro India è stata la mia creatura prediletta, l’ho quasi tirata su con le mie mani; e oggi per me è molto bello che si sia pensato di farne un’arena e di utilizzare cioè quel teatro per come era stato pensato, nel senso della contaminazione tra le arti.

Parlavi di spazi, proprio nel senso, credo, di inedita articolazione e liberazione dell’esibizione. Qual è stato il tuo approccio con lo spazio dell’India, proprio con l’architettura industriale, post-industriale di quel luogo?
Tutto il mio lavoro, dagli anni Settanta in poi è un lavoro sullo spazio. Avevo iniziato sperimentando proprio all’interno di spazi non teatrali. E ancora oggi continuo a sentire lo spazio come il dispositivo fondamentale con cui si possa aprire la drammaturgia, si possa dare potenza al lavoro in teatro. Venivo peraltro dall’aver fatto I sette contro Tebe nella sala sotterranea del Teatro Nuovo di Napoli in cui c’era quest’idea della porta aperta sulla strada, sui vicoli dei quartieri, poi convogliata anche all’India. Da lì nacque anche la rivista che realizzai in quel periodo e chiamai appunto «La porta aperta», che accompagnava il progetto che portavo avanti. La relazione con quell’architettura fu dunque naturale.

Quindi il Teatro India come spazio ibrido, stratificato che si presta all’interazione tra le arti, alla dislocazione del teatro passando per la porta aperta, per liberarlo e farlo diventare un altro teatro. Eppure c’è spesso nei tuoi film la presenza di una teatralità consolidata. Cosa può aggiungere al cinema questa gestica, questa messa in scena di tipo teatrale, come avviene ad esempio nell’ultimo «Sindaco del rione sanità»?
Ho sempre pensato senza limiti questi linguaggi: sin dall’inizio ho spostato il cinema verso il teatro e viceversa. Dei miei nove lungometraggi, Teatro di guerra, Capri Revolution, Il sindaco del rione sanità e adesso naturalmente il film che ho appena finito di girare Qui rido io, ben quattro hanno il teatro come tema, come pratica: il teatro è dentro il film. Capri Revolution è speciale per via della danza. La Capri di inizio Novecento legata a Monte Verità in Svizzera dov’è nata la danza moderna, è il luogo in cui si ripensa la performance, l’arte, implicandole con un’idea politica in quanto intervento sulla vita delle persone, sulla socialità, sulla Natura: è questo il senso politico di Capri Revolution.

A proposito di danza mi viene in mente la definizione che ne dà Zanardi nel suo libro «Sulla danza», come attività centrale, evidentemente politica (nel senso di cui si diceva) che crea, immagina nuovi spazi di sedimentazione del Senso, spazi di sussistenza personale e di convivenza. Non so se sia calzante con il tuo pensiero.
Lo è totalmente. Ecco perché la danza è parte fondamentale del film, per ragioni storiche: in quel periodo essa era una pratica importante, veicolava delle verità; è la danza moderna creata da Laban. Ma la danza vale qui anche come discorso sull’arte: in Capri Revolution c’è proprio una dimensione legata alla performance, all’installazione; Joseph Beuys, Herman Nitsch ne sono altri riferimenti essenziali.

In «Capri Revolution» la musica sembra avere un ruolo importante. Rispetto all’ingiunzione di Bresson secondo cui il cinema dovesse essere solo questione di immagine, scevra da ogni commento musicale, come si pongono i tuoi ultimi film così intrisi di musica, penso anche all’elettronica usata nel «Giovane Favoloso»?
Vorrei rispondere alla tua domanda in maniera diretta dicendo che sostanzialmente concordo con Bresson e quindi cerco di immaginare la musica dei miei film non come un accompagnamento alle immagini ma come vere e proprie immagini. Vorrei introdurre questo termine: sono scenografie sonore. In Noi credevamo tutto ciò è molto chiaro, perché la scelta di prendere ad esempio delle arie togliendo loro il canto e lasciando solo la parte orchestrale significava definire attraverso la musica lo spazio emotivo, oltre che quello politico già intrinseco al melodramma ottocentesco. Quindi in Noi credevamo quella musica valeva come scenografia sonora. Certo negli ultimi tempi questo lavoro si è intensificato, ma già da Morte di un matematico napoletano queste scelte musicali sono scelte di montaggio: sono vere e proprie immagini.

Quella di «Capri Revolution» è una rivoluzione femminile, che assume cioè l’aspetto carneo, sensuale della donna liberamente desiderante, ed è una rivoluzione femminista, marcando con questo termine il valore politico, identitario del movimento. A che punto è oggi questa rivoluzione, anche alla luce di quello che è accaduto negli ultimi tempi, non casualmente le coreografie delle donne in piazza, dal Cile all’Europa?
In quanto rivoluzione essa era inevitabile: non era possibile non accadesse per una proprietà implicita del concetto di rivoluzione, di qualcosa che erompe dentro il corso della Storia. Le rivoluzioni sono come tappi che esplodono rispetto a qualcosa che, da troppo tempo, costringe la società dentro una dimensione di sofferenza intollerabile. E qualcosa di importantissimo sta accadendo che spero non lasci strascichi di sangue.

Proprio in rapporto a queste danze, a queste coreografie sembrerebbe che «Capri Revolution» abbia in qualche modo anticipato i codici gestuali, espressivi di queste proteste, che poi sembrerebbero la sublimazione, in movenze, mosse esatte, del concetto stesso di rivoluzione.
In ragione di questo tengo a sottolineare che le danze del mio film sono di Raffaella Giordano. Il mio lavoro è da sempre volto alla relazione tra artisti oltre che a quello uomo-donna: io chiaramente sono un uomo e non posso che agire come tale, ma è fondamentale la dialettica con le artiste e le collaboratrici con cui da sempre lavoro. In Capri Revolution l’anima di Raffaella Giordano è fondamentale, proprio nel senso che dici tu, nel senso di una sensibilità e di un pensiero specifici con cui lei rielabora la storia della danza a partire da Laban, in una maniera tutta sua, che è quella che dà una forza al film e che ha anche compattato il gruppo di attrici e di attori che ha lavorato al film.

Infine, puoi dirci qualcosa sul tuo ultimo film?
È un film su Eduardo Scarpetta, padre naturale dei tre fratelli De Filippo: è una storia familiare, una storia di teatro naturalmente, ma non solo: mi sembra che quella storia sia un grande romanzo e come tale ho cercato di trattarla. Vedremo…