Il 21 marzo di quattro anni fa ci lasciava Mario Dalmaviva. Se ne andava dopo una lunga malattia una persona speciale, molto vicina alla storia de «il manifesto» nel periodo delicatissimo che fu la fine degli anni Settanta e l’avvio degli anni Ottanta. A lui questo giornale ha davvero voluto molto bene. Mario Dalmaviva era stato militante di Potere Operaio e pubblicitario, venne coinvolto nell’inchiesta del 7 Aprile 1979 su Autonomia Operaia e subì un lungo periodo di detenzione preventiva prima di essere condannato ad una pena di sette anni, poi ridotta a quattro (già scontati). Fu quello della battaglia contro il teorema del magistrato Calogero, un impegno costante del quotidiano comunista «il manifesto» e dell’iniziativa di Rossana Rossanda.

il manifesto dell’11 aprile 1979

Come scrisse salutandolo per l’ultima volta il «fratello» Alberto Magnaghi «la sua ribellione all’ingiustizia era cominciata nel 1981, con uno sciopero della fame di sessanta giorni, per rivendicare la propria innocenza: il giudice Caselli lo aveva, poco prima del “teorema” del giudice padovano Calogero, prosciolto da tutti i reati torinesi per cui era inquisito. Ma anche per rivendicare la propria estraneità, dal carcere speciale di Fossombrone, al progetto delle Br di rilancio della lotta armata, attraverso le rivolte carcerarie».

Mario è stato un rivoluzionario gentile, sempre incline al sorriso. Veniva da lontano, da sociologia di Trento; aveva conosciuto Sergio Bologna a Milano e Vittorio Rieser a Torino, con il quale aveva fondato la Lega studenti–operai, anticipatrice, con gli scioperi alla Lancia, dell’incontro sociale fra università e fabbrica ai cancelli della Fiat: così nacque la fondativa assemblea permanente operai-studenti.

Dal carcere di Torino l’autore cominciò a inviarci una serie di vignette fatte in scarsità di mezzi e spazi, facendo così di necessità virtù. Tutte avevano come unico protagonista la porta sbarrata di una cella: dall’interno e dall’esterno quei tratti contaminati di parole e sbarre rappresentavano un infinito recluso.

Pareva impossibile che da quella condizione uscissero delle nuvole pensierose e divertite che ponevano domande sui contenuti della nostra residua libertà. La libertà di tutti.

DALMAVIVA

La cella diventava un espediente narrativo che chiedeva l’ascolto di una generazione, dando la misura dell’angoscia e della claustrofobia non solo della detenzione carceraria, in una forma e misura grafica. Furono quelle le prime vignette uscite sul «manifesto». Ebbero subito un grande successo, anche perché fortemente segnate dalla volontà di restituire nel segno e nello spazio breve del fumetto dentro la nuvola e nel modo della satira, tutta la pesantezza del tempo.

Mario Dalmaviva, non volle mai rinunciare alla cifra poetica della sua serenità. E utilizzava – come abbiamo scritto per ricordarlo quattro anni fa – ogni vignetta, ogni balloon, come fossero una lima per segare le sbarre delle prigioni, concrete e mentali di una generazione. S

empre siglando «Viva», una nuova firma per noi, una sigla luminosa, un neon fantasmagorico dal nero-cella, un «segno» del suo rimanere in vita nonostante tutto, a memoria della radice «umanitaria» del suo cognome. Un timbro di testimonianza lucida e allegra.