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Mario Cresci al crocevia dei linguaggi

Mario Cresci al crocevia dei linguaggiMario Cresci, dalla serie «Vedere attraverso», Bologna, 2010

GAMeC di Bergamo e sistema ACAMM in Basilicata celebrano Mario Cresci, maestro della fotografia Il suo lavoro, a partire dagli anni sessanta, ha sfidato le convenzioni di genere e tecnica facendosi luogo di proiezione sociale

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 aprile 2017

Bergamo, riconoscendo il ruolo avuto da Mario Cresci (Chiavari, 1942) nella crescita della città, prima come direttore dell’Accademia di Belle Arti G. Carrara e poi per la scelta di continuare a viverci, gli ha dedicato, a cura di Maria Cristina Rodeschini e la supervisione dello stesso autore, una bellissima antologica intitolata La fotografia del no. Un titolo che, in ricordo di Lanfranco Colombo e Luciano Inga-Pin, rispettivamente a capo delle gallerie Il Diaframma e il Diagramma, nel cuore di Brera, tra Cartier-Bresson e Paolo Monti, Marina Abramovic e Urs Lüthi, sottolinea la capacità di Cresci di muoversi su aspetti multidisciplinari della creatività e il ruolo avuto nello sviluppo dei linguaggi sperimentali legati alla fotografia resa sguardo penetrante sulla realtà.
Il no di Cresci, fin dagli anni sessanta, quando segue il Corso Superiore di Disegno Industriale a Venezia, scende per la prima volta in Basilicata, con il gruppo coordinato da Aldo Musacchio, per il Piano regolatore di Tricarico, e avverte le complessità di un territorio-villaggio, si trasferisce a Roma, conosce Pascali, Mattiacci, Kounellis, Boetti e il gruppo torinese dell’Arte Povera, pratica una serie di performance urbane, frequenta Filiberto Menna, L’Attico di Fabio Sargentini e Arco d’Alibert di Mara Coccia, è indirizzato al consumismo di quegli anni, quindi al rifiuto del mercato che comincia a condizionare anche la fotografia, per un più ampio spettro di verifica strettamente connessa all’indagine sociale, al rapporto tra gli uomini e la loro regione, alla «realtà di una comunità».
Quel no di allora, nel corso dei decenni che lo hanno visto impegnato a Matera per un progetto di laboratorio-scuola di formazione e grafica di pubblica utilità, è stato seguito da molti altri, a Parma, Barbarano Romano, Milano, Napoli, Vevey, Venezia, ogni volta che la fotografia, a contatto con la complessità della vita, veniva a o si faceva contaminare non solo dalle avanguardie del tempo ma anche, e soprattutto, dall’architettura, dal visual design, dall’etnografia, dall’antropologia, da quanto, insomma, aveva contribuito alla sua formazione e sollecitava la sua crescita, impossibile a essere circoscritta a un mezzo, preferito tra i tanti ma non il solo. E questo perché la programmazione interdisciplinare ha fatto sempre capo a esperienze culturali complesse (basti pensare all’environnement realizzato nel 1969, con centinaia e centinaia di cilindri trasparenti pieni di fotografie, o al lavoro raccolto nel ’75 e nel ’79 in Matera, immagini e documenti e in Misurazioni. Fotografia e territorio, da tener presenti in vista di «Matera 2019», così da recuperare una sconfitta della città) che pongono alla base dei numerosi temi che lo hanno catturato la cultura materiale, la riedificazione del senso del paesaggio, l’evoluzione del rapporto associativo tra significante e significato, l’utilizzo delle analogie, le costruzioni site-specific di questi ultimi tempi.
Lo scatto in più, fin dalle origini, è che usando la fotografia in ambito artistico, facendo del rinnovamento teorico e pratico dell’immagine, incalzato dalle molte discipline praticate e dalle estese fondamentali letture e amicizie, la strada maestra, pur tendendo a una piena leggibilità della sua attività, non ha bisogno di chiuderla, come parecchi suoi compagni di strada, in una idea di bellezza o di stile.
Ancora un no, dunque, perché la fotografia, come ha messo in luce la mostra alla GAMeC di Bergamo e quelle organizzate in contemporanea dal Sistema ACAMM (quattro paesi lucani: Aliano-Castronuovo Sant’Andrea-Moliterno-Montemurro, ricchi di oltre venti attivissimi contenitori culturali), è anche installazione, penetrazione dell’area urbana, racconto privato, circuito visivo, percezione delle cose viste dal di dentro, interazione con opere celebri, scoperta di nuovi materiali, possibilità di annullare i confini ancora esistenti tra fotografia e spazio fisico.
Questi temi, che coprono ormai più di mezzo secolo di lavoro, sono stati allestiti a Bergamo attraverso dodici capitoli (ridotti a quattro nei musei ACAMM), più o meno intrecciati, nei quali l’uno rimanda all’altro, con punte vertiginose di conquiste anche tecniche e una sana dose di anarchia e di utopia in evidente dialettica. Ogni capitolo evidenzia le ragioni delle scelte fatte, i problemi affrontati, le poetiche declinate nel corso degli anni, le passioni per gli artisti a lui più vicini (Boetti, Pascali, Kounellis, Mattiacci, Anselmo, Fabro, Zorio, Paolini) ma anche per l’arte antica, in una sorta di reportage che non è quello fotografico ma un genere di definizione delle forme del comunicare non esclusivamente da testimone, a metà tra il quotidiano e la storia, costantemente in tensione, quasi lo sguardo dovesse stabilire un cortocircuito energetico, da rinnovare rimanendo nelle situazioni.
Quanto Cresci, rivedendo il suo passato, abbia innestato il suo lavoro nelle «situazioni», dentro le cose ma fuori dal sistema, sottraendosi alla fotografia che mima la pittura, lo si percepisce dalla costruzione del catalogo, impaginato in controcanto con la mostra e, quindi, scegliendo testi della curatrice ma anche di storici, critici, progettisti, teorici di diverse generazioni (da Marco Romanelli a Roberta Valtorta, da Luca Panaro a Martina Corgnati e a Enzo Biffi Gentili) ai quali affida l’analisi del suo disegnare e impaginare immagini con la luce, l’interdisciplinarità da cui queste immagini sono nate, il suo muoversi di continuo fra tradizione e sperimentazione, da un medium all’altro, le tecniche messe in campo nei passaggi repentini dal guardare al vedere e da questi all’osservare e al passare all’azione, sempre annotando le stagioni della sua vita, la molteplicità di esperienze e di ansie creative accumulate in contesti sociali diversi. Avendo delle precise linee-guida che hanno stimolato incontri umani, metodi di ripresa, scoperte e conoscenze non riconducibili alla sola disciplina in cui storicamente è da tempo sistemato, e hanno aperto fronti di intervento che molti, in Lucania, con il cinismo che conosciamo, hanno preferito ignorare.

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