Pensiero musicale del desiderio non sul desiderio. Vengono in mente parole come queste ascoltando tre brani di Mario Bertoncini al Conservatorio Santa Cecilia di Roma. Un pianoforte «preparato» nella maniera sua, del compositore-performer-costruttore di strumenti pazzeschi (le arpe eolie azionate o dal vento o da congegni complicatissimi) scomparso un mese fa. In Suite ’99 Colori (1999) il pianoforte suonato da Luisa Santacesaria è un contenitore di corde, anzi di fili sottili che diffondono magie nello spazio. Magie di evanescenze, di dimensioni aeree dello spirito. Ma, ancora sulle corde, c’è un gorgogliare di suoni che potrebbero persino avvicinare l’idea di tempesta sonora romantica se non fossero caratterizzati da un sapere sperimentale passato dalle astrazioni razionalistiche del ‘900.

E POI LA COSTANTE tensione verso la spazialità della musica e i suoni quasi inudibili: Bertoncini sembra dialogare implicitamente col sound design, questa musica sembra musica elettronica e uno si chiede come fa. Ci sono parti sulla tastiera, sempre «preparata», di una levità pensosa e concreta: da Cage in poi all’infinito. La sorpresa è lo stato d’animo costante dell’ascoltatore durante questo concerto. Insieme all’ammirazione di opere nelle quali non si sente un grammo di cliché, quei cliché, magari importanti, dell’avanguardia che è così difficile togliere anche da capolavori storici.
An American Dream (1974) è un altro esempio di uso sovversivo/trasformativo del pianoforte. Il solista Reinhold Friedl estrae suoni lunghi e tenuti dalla grande arca, un continuum che rimanda proprio alla musica elettronica. Eppure agisce soltanto con piccoli congegni (che nessuno vede) sullo strumento così com’è. Il tutto è annotato con precisione dall’autore, s’intende. Ma dopo questo incipit si ascoltano sequenze minimal di un classico pianoforte «preparato» alla Cage: sonorità di clavicembalo o di carillon. Però, passaggi minimal di questa natura non s’erano mai sentiti.

ANCHE PERCHÉ sono insidiati da altri suoni lunghi, sibili, nuovamente suscitati, come d’incanto, da uno strumento magicamente manipolato. Si va indietro nel tempo cronologico fino al 1965 con Tune, ideato per gruppo di percussionisti e questa volta interpretato dal trio Zaum (Simone Beneventi, Carlota Cáceres, Lorenzo Colombo). Tempo cronologico, appunto. Il tempo dell’essere contemporaneo e, anzi, prefiguratore è un’altra cosa. Il tempo di Bertoncini. Solo i piatti e gli archetti che fanno risuonare i piatti in questo straordinario brano. Sonorità di metallo leggero. I pochi battiti sono «senza scansione», il clima è di mistero ma con quel tanto di scabro che ben si adatta alle avanguardie di ieri e di oggi.
Il concerto è stato la conclusione di una «giornata Bertoncini», in memoriam. I musicologi Daniela Tortora e Gianmario Borio l’anno voluta. Una folla di studiosi, musicisti, critici ha improvvisato ricordi e osservazioni sulla vita di un grande artista. Uno che non si dimentica.