È in questa assurda porzione di vita rubata da un invisibile sterminatore (il covid-19), che il poeta Mario Benedetti (1955-2020) ci ha per la seconda volta lasciati. La prima volta è stata nel 2014 dopo un violento infarto, che l’ha portato in un luogo insondabile, dove la sua mente non è riuscita più a dialogare con la realtà, la stessa che l’ha sempre motivato e tenuto ancorato nella profondità dei suoi versi.

Benedetti è stata una delle voci più decisive della nostra generazione poetica che, dagli anni Settanta ha saputo come convogliare, in una particolare «presa diretta» sul mondo, una scrittura che non ha mai chiesto, né alla pietà, né alla commiserazione un lasciapassare capace di metterlo al riparo. La sua poesia è sempre stata la mappatura di una quotidianità estorta all’ascolto, alle visioni che si affaccendavano da un mondo all’altro del suo sentire/vedere.

Dopo una laurea in filosofia, Mario Benedetti giunge a Milano per fare l’insegnante. La sua figura discreta e franca sa subito creare attorno a sé un’attenzione particolare. La stessa che si rivolge a un dire sommesso e speciale, a un fare concreto e libero, capace di diventare in poco tempo (dalla popolarità che L’umana gloria del 2004 presso Mondadori gli seppe, dolorosamente, concedere), un poeta «maestro» per una compagine di voci che fino ad allora non erano riuscite ad avere padri, ma tutt’al più fratelli di strada, con cui condividere i tempi assurdi e fragili degli anni ottanta/novanta.

MA È STATA LA SUA MANIERA di allontanarsi a tratti dalla quotidianità coatta, a restituirgli soglie di autenticità che, nei dettagli improvvisi di un perseguitare concretezze – patite e vissute fino all’ultimo spasimo – la sua poesia ha germinato per tutti noi, in un tempo di fame e di incertezze splendenti e svilenti. Il suo dettato poetico ha avuto il sapore hölderliano delle lontananze, ha saputo come impostare un’interrogazione continua sulla precarietà delle emozioni, sottolineando la violenza delle perdite e degli abbandoni, con una delicatezza e una commozione umana alta e precisa. Mario Benedetti è stato un poeta «parlante» – anche se la sua vita era spesso imbastita da abissali silenzi e fratture. Un poeta carico di una liricità che non aveva solo un «Io» cui dare ascolto, ma un’umanità alla quale prestare attenzione. La visionarietà dei suoi versi, lanciati tra i colori estratti da una grammatura porosa e cupa dei vissuti, ha saputo come farci compagnia proprio negli anni in cui la leggerezza sembrava deprivarci di possibilità e la solitudine farsi estrema. Una grammatica spirituale e linguistica carica di implosioni, che si spezza per necessità, per emozioni e per rabbia, sarà la sua marca poetica. Una lingua governata da una tenacia espressiva (soprattutto nelle ultime raccolte) ha permesso di sporgerci da ringhiere pericolanti e arrugginite, incapaci di sostenerci ma, certamente, in grado di farci vedere paesaggi e passaggi inauditi e a tratti indicibili del vero.

MARIO BENEDETTI, da questa sua insistente e improvvisa dipartita, non ha lasciato un vuoto, bensì un pieno colmo e da ricolmare ancora di un’umana gloria in debito con la sua voce. «Sono qui, con la notte,/ e più lontano sotto la luce mangiano,/ Poche le mie parole:/ prato, casa, non so/ se arriverai,/ e quel cortile nella luce dagli alberi/ mi dirà vivi, cambia.// Più su le stelle,/ e una sera non so/ perché avevo paura, perché la stanza/ -suonano, non lasciarmi qui-/ era più su della stanza.// E le mie parole dopo le mie,/ la terra tutta, rotonda, intera/ da lontano come il mio corpo».

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Opere in versi

Nel 1989 esce «Il cielo per sempre», con la rivista Schema. Del 1992 è «I Secoli della primavera»; «Una terra che non sembra vera (1997); «Il parco del Triglav» (1999); «Borgo con locanda» (2000). Del 2004 è «Umana gloria»; «Pitture nere su carta» (2008); «Materiali di un’identità (2010); «Tersa morte» (2013). Il volume «Tutte le poesie», edito da Garzanti, è del 2017.