Sessant’anni di professione, che si snodano in un centinaio di opere di architettura, design e allestimento, premiate con otto Compassi d’Oro e una Medaglia all’Architettura Italiana, conferita nel 2015 per celebrarne la carriera.

Pochi numeri, che però riassumono molti dei successi raggiunti da Mario Bellini, classe 1935, già all’indomani della laurea conseguita, nel ’59, al Politecnico di Milano sotto la guida di Ernesto Nathan Rogers.

Oggi raccontati attraverso una ricca esposizione, da poco inaugurata alla Triennale: Mario Bellini. Italian Beauty ripercorre le tappe del poliedrico viaggio di un progettista che, spiega Germano Celant, «è impregnato di una sensibilità verso la risoluzione espressiva delle circostanze offerte dalla produzione di un oggetto e dalla definizione di un complesso abitativo o di un edificio industriale». Insomma, verso «l’espressività delle forme e delle materie, dei volumi e delle superfici». Un approccio evidente a chi attraversa la mostra, allestita dallo stesso Bellini che, dunque, mette in scena se stesso.

A partire dal fastoso portale che proietta i contenuti dell’esposizione già lungo l’atrio del Palazzo dell’Arte: un’enorme vetrina, dipinta di rosso, che attira lo sguardo del visitatore più distratto e che accoglie modelli di architettura, immagini, prototipi, oggetti della sua produzione. E che al contempo richiama uno dei più noti progetti di exhibit design firmati da Bellini: la Scatola dell’Anima, che segnava l’ingresso alla mostra Il progetto domestico (1986), pietra miliare nell’evoluzione delle mostre dedicate alla casa italiana.

Il sistema di sedute «Le Bambole»

Dietro al portale, una galleria di specchi che riecheggia vagamente il gusto di certi allestimenti milanesi anni sessanta (si pensi al Caleidoscopio di Gregotti, Stoppino e Meneghetti disegnato per la XIII Triennale, nel 1964) in cui è esposto, tra gli altri, il celeberrimo sistema di sedute Le Bambole (1972) realizzato per B&B Italia.

Divenuto imperitura icona, anche grazie alla pluripremiata campagna pubblicitaria che vedeva Donna Jordan, musa di Andy Wharol, fotografata da Oliviero Toscani, il sistema è mostrato, attraverso il gioco degli specchi, in tutti i suoi aspetti più interessanti: non solo la sua forma/non forma (quella di un soffice monoblocco in cui schienale, seduta e bracciolo s’inseguono e si fondono) ma anche la struttura portante, apparentemente assente, che è invece riflessa attraverso la troncatura posteriore di una sezione del sistema stesso.

Prima e dopo Le Bambole, un’impressionate sequenza – organizzata cronologicamente – di oggetti e famiglie di oggetti: i frutti della lunga collaborazione con Olivetti, per cui Bellini ha disegnato P101 (1965), primo personal computer al mondo, e la calcolatrice elettronica Divisumma 18 (1973); con Cassina (gli imbottiti della serie Le Tentazioni, 1973; i tavoli Il Colonnato, La Basilica e La Rotonda, 1977); i numerosi prototipi di televisori per Brionvega; o, ancora, il giradischi portatile Pop (1968) per Minerva.

Al soffitto della galleria è appesa una sequenza di oltre cento immagini, che tratteggiano la summa del pensiero progettuale di Bellini: fotografie d’arte e architettura, del mondo animale e vegetale. Dunque, opere realizzate e fonti d’ispirazione, che anticipano il tema affrontato in una delle stanze disposte lungo il percorso: la Wunderkammer, in cui aleggiano gli spiriti di Mario Sironi, Issey Miyake, Ettore Sottsass, Wolfgang Amadeus Mozart, Lucio Fontana, Gio Ponti o Carlo Mollino. Alle ricerche di quest’ultimo, per esempio, appaiono ispirati alcuni dei più recenti mobili di Bellini: i tavoli Opera Coffee e Opera Ovale (2014) e la poltroncina Seat Opera (2016), disegnati per Meritalia, che esibiscono uno scheletro in legno curvato memore della lezione del maestro torinese.

Le altre quattro stanze del percorso sono dedicate all’architettura, che viene presentata attraverso disegni, plastici e video-installazioni che consentono la lettura simultanea delle caratteristiche di complessi come la scuola elementare Gabrio Piola a Giussano (1991), il pregevole intervento di ricucitura urbana che ha portato alla costruzione dell’edificio per abitazioni in via dei Fiori Chiari a Milano (1988-1996) o – a scala mondiale e in periodo a noi più prossimo – il Dipartimento delle Arti Islamiche per il museo del Louvre, inaugurato nel 2012.
Vagamente familiari, poi estranei

Progetti in cui rivive l’insegnamento di Rogers, deus ex machina che ha mosso i fili di una tra le migliori generazioni di progettisti italiani, in cui Bellini insegue – esattamente come per i prodotti di design – il punto d’equilibrio tra la spinta verso il futuro, impressa dallo sviluppo tecnologico, e la rilettura di componenti tradizionali, che rendono oggetto e progetto, al contempo, vagamente familiari e improvvisamente estranei.

La mostra, aperta fino al 19 marzo, è curata da Deyan Sudjic (direttore, insieme ad Alice Black, del Design Museum di Londra) con Ermanno Ranzani, incaricato della sezione architettura, e Marco Sammicheli (design). È accompagnata da un catalogo (Silvana Editoriale, euro 28,00) che raccoglie saggi sull’opera di Bellini scritti, nel corso degli anni, da alcuni celebri personaggi del mondo del progetto: non solo critici e storici di fama internazionale (tra cui spicca Kenneth Frampton) ma anche il collega Gaetano Pesce o il fotografo Gabriele Basilico.