Nel 1912, quando parigini e forestieri visitano la sezione delle arti decorative del Salon d’Automne, il loro stupore è tutto concentrato sull’installazione della Maison Cubiste. Superata la spigolosa facciata in gesso disegnata da Raymond Duchamp-Villon si trovano nell’interieur creato da Andrè Mare: un Salon Bourgeois e una camera da letto. Appesi alle pareti decorate con motivi fitomorfici ci sono i quadri di Roger de La Fresnaye, Marcel Duchamp, Albert Gleizes, Marie Laurencin, Fernand Léger e Jean Metzinger, e sulla mensola del camino del salone due vasi smaltati su vetro trasparente di Maurice Marinot. La sua presenza a Parigi da «artigiano-creatore» capita quattro anni dopo il suo trasferimento a Troyes, dove era nato nel 1882. Nella capitale francese rinunciò a restare dopo gli studi all’École des Beaux-Arts (1901-1905) e gli scarsi successi da pittore fauves.
A Troyes ritrova i fratelli Viard, che avevano avviato una promettente attività industriale rilevando una vetreria a Bar-sur-Seine, e così con «entusiasmo e violento desiderio», come dirà lo stesso Marinot nel 1943, si dedica al «nuovo gioco», dal quale però ricava l’affermazione tanto desiderata e un posto da protagonista nella storia delle arti «nuove» e decò del vetro francese, che lo pone accanto a (in ordine) Joseph Brocard, Eugène Rousseau, Émile Gallé, e ai suoi contemporanei René Lalique e Henri Navarre. Nelle sale impeccabilmente ordinate delle «Stanze del Vetro» all’Isola di San Giorgio, grazie alla collaborazione con il Musée des Arts décoratifs di Parigi, è possibile ammirare – ancora fino al 28 luglio – le creazioni di Marinot nella prima retrospettiva estera a lui dedicata.
Curata da Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami l’esposizione ha il merito di chiarire quanto vigoroso sia stato l’ultimo tentativo di sintesi, letto attraverso uno dei suoi protagonisti e compiuto da una schiera di artisti-artigiani riuniti nel movimento dell’Art Nouveau, perché fossero superate le contraddizioni dei tempi moderni. Il primo contrasto riguardava il confronto con la tecnica, o meglio con i modi nuovi della «riproducibilità tecnica». Se inizialmente ciò mise in allarme gli artisti del realismo pittorico, per l’Art Nouveau il problema fu semplicemente rimosso con lo stratagemma, come spiegò Benjamin nei Passages, di «sterilizzare nella forma dell’ornamento» i «motivi della tecnica». Anche Marinot, già all’inizio della sua carriera, rigetta il lavoro tecnicizzato e la serialità dell’industria. Con vasi, calici, flaconi in smalto dà anch’egli un valido contributo a «stilizzare l’esistenza» della borghesia prima che questa, almeno un quindicennio dopo, fosse «svegliata minacciosamente», con il piombare della guerra, dai suoi sogni, quelli che la possedettero dentro l’«abitare armonioso» e domestico. Anche le creazioni di Marinot, dal 1912 al 1922, sembrano discendere da una «collettività sognante che non conosce nessuna storia».
Tuttavia, come ha colto con precisione Rossella Froissart nel suo saggio in catalogo (Skira), se già con la novità dei vetri smaltati egli rompe con le «preziose opacità dell’art nouveau» compiendo il felice connubio tra la materia del vetro trasparente e la pittura dalle tinte di un «fauvismo temperato», a partire dalla fine degli anni venti fornirà prove di ben altra originalità. Abbandonerà, infatti, la decorazione di motivi indifferentemente esotici, naturalistici, primitivi o popolari, aderenti in profondità a quella «casa di sogno», creatura dell’Art Nouveau, intorno alla quale ogni «accadere del mondo sta sospeso come corpi d’insetti cui è stata succhiata la linfa» (ancora con Benjamin). Dominato da un inquieto desiderio di possedere la materia, soffiandola e modellandola lui stesso con ostinazione, Marinot va alla ricerca dell’invenzione pura di «oggetti unici e perfettamente inutili», i soli in grado di restituire «al lavoro artigianale il suo carattere sperimentale», quindi artistico, nel tentativo, così facendo, di sottrarli alle incertezze del gusto. D’altronde, lo dichiara lui stesso nel 1933: il vetro «è un mezzo per esprimermi come la pittura e la scultura, nulla a che vedere con l’arte docorativa».
Il primo ad assecondarlo in questa scelta è Adrien Aurélien Hébrard, che nella sua galleria ospita dal 1902 le arti decorative insieme ai bronzi di famosi scultori (Dalou, Bourdelle, Bugatti, Pompon). Sarà ancora per meriti di Hébrard e delle sue altolocate relazioni, così bene descritte da Véronique Ayroles, se Marinot sbarca in seguito sul mercato statunitense. Jade Goss lo racconta in dettaglio nel suo saggio, dove è centrale il ruolo d’intermediario della galleria francese Jacques Seligmann&Co., che nel 1904 apre a New York facendo così da tramite con i più importanti musei e collezionisti americani. Se ancora all’inizio degli anni venti Marinot è in bilico «tra la virtuosistica ‘giocoleria’ veneziana e la pesantezza germanica» (Froissart), dal 1927 inizia un nuovo ciclo attratto sempre più dai grossi spessori della pasta vitrea lavorata a caldo e con forza.
In una nota del 1960, anno della sua morte, lascerà scritto: «I miei riflessi si uniscono a quelli propri del vetro. Io non sono altro se non un vetraio pieno di desideri e senza ricordi». Accade così che progressivamente abbandoni l’inserimento di bolle d’aria, elementi metallici o polveri colorate in forme morbide e archetipe, per flaconi e vasi dalle superfici rugose, trattati con acidi, molati a freddo, con sovrapposizioni di vetro trasparente, incisioni di selce, in una «lotta armoniosa» dove tutte le tecniche sono disponibili e dove «le opere nascono le une dalle altre». Il denominatore comune di ogni esemplare è la tettonica, elementare e pesante, che li rende sculture e sublimi pezzi «architettonici», seppure somiglianti a «frammenti di natura».
Per questo non potevano avere migliore accoglienza se non nel bacino di San Marco, dove la durezza della pietra e la delicatezza delle acque coesistono da secoli.