Il danno è incalcolabile. E non solo per il prestigio internazionale, per la perdita di attrattiva, per il calo delle rimesse turistiche. Ma soprattutto per l’indebolimento del tono culturale e dell’assetto sociale, per la regressione della tenuta civica. Mai prima d’ora, nella sua storia recente, Roma aveva subito un impatto negativo di queste proporzioni. Si può anche recriminare sull’eccesso di severità che si riscontra sulla stampa internazionale, ma quando esso coincide con l’opinione diffusa, con il senso comune che si avverte in città, non resta che trarne le conclusioni. Roma sta irrimediabilmente scivolando verso un declino: che per una parte sembra forse meritarsi, ma per un’altra riguarda direttamente le responsabilità di chi oggi la governa.

In politica è così. Ciò che conta sono i risultati. E i risultati di questi ultimi due anni di amministrazione comunale sono disastrosi. Né sarà l’arrivo di qualche nuovo assessore, scelto non si sa bene da chi, a imprimere cambiamenti positivi, svolte risolutive. Se Roma tracima rifiuti in ogni angolo, in centro come nelle periferie, tra colonie di ratti, stormi di gabbiani e perfino cinghiali a passeggio. Se il sistema dei trasporti è cronicamente al di sotto delle necessità e funziona solo grazie a infiltrazioni antidolorifiche, talché sia sufficiente un niente per mandarlo in fibrillazione. Se le persone che hanno disagi, che chiedono aiuto, che non sanno dove vivere, che soffrono la solitudine o peggio non ricevono più neanche un minimo di sostegno e neanche un sorriso o un abbraccio. Se il circuito culturale pubblico è stato spento e non si suona e non si canta più, non si va più al cinema all’aperto, non ci sono più feste, ma solo concerti che costano e quanto costano.

Se Roma vive insomma una condizione di degrado insostenibile, che prim’ancora d’indignare provoca un acuto dispiacere, il problema può essere quello del salario accessorio degli impiegati comunali o quello dei pendolari inferociti o quello delle maestre d’infanzia precarie che protestano o quello degli occupanti del Teatro Valle, del Cinema America, dello Scup? O quello dei sampietrini ballerini e delle caditoie otturate? O dell’assessore insoddisfatto, del consigliere inquieto, del funzionario intristito? O non piuttosto siamo di fronte a un catastrofico fallimento dei due anni con Marino in Campidoglio? Era stato presentato come il campione della sinistra che non guarda in faccia a nessuno, è finito come sottintendente di un presidente del consiglio che sta demolendo l’intelaiatura democratica del paese.

Pur di continuare ad affacciarsi a quella finestra sui Fori, è disposto a consumare le più spericolate acrobazie politiche. E addirittura ad accelerare ridimensionamenti, privatizzazioni, svendite, con lo zelo ottuso di chi continua a non capire di essere indesiderato. Già s’è venduto un pezzo dell’Acea e adesso si accinge a mettere all’asta anche autobus e metropolitane, in attesa di trovare compratori per smaltire e trattare il ciclo dei rifiuti. Dopo averle fatte deperire fino allo stremo, ora le aziende comunali possono anche passare di mano.
Prima se ne torna a casa, Marino, e meglio sarà per la città e per tutti noi. Ma poi potrebbe andar peggio, pigolano in molti. È molto difficile peggiorare, ma possibile. Ma non per questo, non per calcolucci, tatticismi e inconfessabili convenienze, si è obbligati a misure di accanimento terapeutico.

Roma non si merita questa manfrina agonica, meglio chiamarla a esprimersi e scegliere. La politica ha bisogno di ritrovare il coraggio smarrito.