Per Pistoia, capitale della cultura 2017, l’appuntamento con Marino Marini, il grande scultore che qui era nato nel 1901, era un po’ un appuntamento obbligato: situazione rischiosa, che in genere si traduce in mostre tanto roboanti quanto inutili. Pistoia il rischio lo ha scansato grazie a due fattori: innanzitutto la scelta di due curatori di ben sperimentata acribia come Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi; poi, grazie a una sede, bella ma sanamente costrittiva, come Palazzo Fabroni. Qui sino ad agosto erano state ospitate una dozzina di sculture di Giovanni Pisano, per un bellissimo e discreto omaggio, a cura di Roberto Bartalini, al genio che proprio lì di fronte, nella chiesa di Sant’Andrea, ha lasciato il suo pulpito più bello, capolavoro annodato di corpi.
Un passaggio di consegne impegnativo, che obbligava a scelte irrituali. Così è stato: negli spazi, a tratti spigolosi, di Palazzo Fabroni incontriamo un Marino insolito, ispido a volte; o, secondo un aggettivo che Fergonzi usa più volte, «urticante». Un Marino dalla natura sorprendentemente sperimentale, anche nei momenti in cui i rapporti con il grande passato, egizio, etrusco, cinese o rinascimentale, si fanno stringenti: Marino Marini. Passioni visive, sino al 7 gennaio; catalogo Silvana.
Nel percorso della mostra c’è una sala in cui questa cifra si rivela in tutta evidenza: è quella ribattezzata Allungamenti gotici. Uno spazio abbastanza angusto in cui tutti gli stereotipi mariniani si dissolvono in modo quasi sconcertante. La sala è imperniata su un grande Cristo crocifisso ligneo, monco di braccia, databile tra fine XII secolo e inizio XIII, unica opera antica che lo scultore teneva nella sua collezione (oggi è nelle raccolte della Fondazione Marino Marini di Pistoia) e che Pier Maria Bardi nel 1960 aveva visto appesa nella sua casa di Milano. Gli spin off che Marino produce dalla matrice del Cristo crocifisso sono abbastanza impressionanti. Dal punto di vista iconografico non stabilisce nessuna relazione (si tratta infatti di due Giocolieri, rispettivamente del 1939 e del 1946, e di un Icaro del 1933, uscito per la prima volta dalla collezione in cui da sempre è custodito). Il suo è piuttosto un apparentamento genetico, con figure che sembrano quasi dei relitti dissepolti, appese nude ai muri, né più né meno del Cristo crocifisso. Sembrano dei calchi di uomini inghiottiti da qualche ignota catastrofe: al punto che la mente inevitabilmente corre alle immagini della grande installazione di Roberto Cuoghi per il Padiglione Italia della Biennale di quest’anno (il titolo potrebbe funzionare benissimo anche per la sala di Palazzo Fabroni: Imitazione di Cristo).
Entrare in questo spazio è un po’ come scoprire il lato proibito di uno scultore che aveva conquistato l’America, in quanto visto come ultimo interprete della grande tradizione italiana; uno scultore che i grandi registi di Hollywood cercavano per dare un tocco di classe agli interni dei loro film (anche se in realtà in una celebre sequenza di Sabrina Billy Wilder aveva capito benissimo il portato aggressivo del Cavaliere di Marino, usato addirittura con allusione fallica a fronte di una memorabile Audrey Hepburn). Non gli è mancato mai il successo, non gli sono mancate le importanti committenze pubbliche, soprattutto a partire dal 1948, anno in cui entrò in rapporto con Curt Valentin, il grande gallerista tedesco emigrato a New York nel 1937. Eppure se Marino non è diventato un grande replicante di se stesso è proprio in forza di questa scontrosità espressiva che sta al fondo del suo lavoro. O meglio che sta sulla superficie delle sue sculture.
È un aspetto che era stato intuito molto precocemente da Gianfranco Contini, che aveva conosciuto Marino durante la guerra quando ambedue erano sfuggiti al fascismo rifugiandosi in Svizzera. Nel 1944 Contini aveva pubblicato un libretto in francese, a Lugano, dedicato a Vingt sculptures de Marino Marini. Come ricostruisce Barbara Cinelli nel saggio in catalogo, Contini definisce lo scultore «un poéte de surfaces: tout le reste est inessentiel». Contini «è capace di riconoscere nel pennello che animerà cromaticamente le superfici e nel chiodo che le inciderà, i segni del desiderato incontro tra la forma e l’atmosfera, e la tensione verso una scultura “totale”».
Questo intervento sulla superficie delle sculture è una costante che il percorso della mostra mette giustamente in rilievo. Nella intensissima sezione dei ritratti, davanti a una varietà incalzante di soluzioni tecniche ed espressive la costante è questo lavoro sulle superfici, che può andare dai tocchi «sporchi» di verde-rosso sul gesso reso rugoso del Ritratto di Madame Grandjean (1945), al bronzo tormentato da patinature violentemente irregolari e da incisioni a secco dello straordinario ritratto di Igor Stravinskj (1951); «grumo di intelligenza sul viso… nervoso come un pugno» (Marco Valsecchi). Anche la superficie del bellissimo ritratto in cera di Fausto Melotti (1937) è tracciata di segni che simili a suture forzano il volume della scultura, come a voler cavare una più spregiudicata energia espressiva.
Dobbiamo quindi immaginare un Marino che, quando il lavoro sembrava concluso e la forma acquisita nella sua pienezza, invece si proiettava sull’oggetto scolpito per tormentarlo e restituirlo a un’imperfezione vitale. «C’è proprio la gioia di rompere questa specie di superficie così dura e così tenuta», raccontava nelle confessioni alla sorella gemella Egle, nel 1959. «La gioia di cesellare e dare vita a delle forme che effettivamente, quando escono dalla fusione, possono essere morte; invece, riprendendole, le ravvivi, diventano un pezzo di bronzo che vive. Generalmente quando escono dalla fusione sembrano sempre delle cose ingolfate, mi sembra che ci sia qualcosa che non mi appartiene più; allora lo riagguanti, lo rompi, prendi un martello, lo spezzi, lo tormenti e diventa vivo, e più lo tocchi e più è vivo».
È un atteggiamento che non risparmia nessuna delle sue opere e che a volte si spinge sino alla mutilazione, come accade nel Popolo (1929), una delle opere più celebri della stagione «etrusca», che in mostra è stata infatti affiancata a un coperchio cinerario del IV secolo a. C.. Marino spacca la scultura al centro quasi a creare dei vuoti ansiosi nei volumi e a sottrarla a una lettura troppo archeologica. Anche le Pomone, forse troppo inflazionate, non sfuggono alla regola. La loro superficie graffiata viene resa accentuatamente ruvida proprio sulle rotondità ed è ad esempio molto distante da quella patinata di un artista che pur era stato riferimento per lui, come Aristide Maillol (ma a Maillol Marino si era permesso di dire: «Quello che lei crede fare, Maestro, non è la Grecia, è la natica della Cesarina…»).
Il dispositivo della mostra funziona proprio perché procede a ritmo serrato, quasi a voler evitare il già saputo su Marino, e mette in luce il lato scontroso della sua scultura. Come accade anche nella sala dei cavalieri dove il bellissimo esemplare in gesso policromo del 1947, messo al centro della sala, si presenta mostrando il didietro, proprio come lo scultore lo aveva voluto fotografare. Quanto alle opere proposte a paragone sono scelte dettate non da suggestioni ma da ragioni filologiche, spulciando la biblioteca di Marino, dove ad esempio è stato trovato un raro volumetto su Daumier scultore: un plasticatore irridente che non ti aspetti nella cosmogonia mariniana.
La mostra è tradita solo dalla pessima qualità delle fotografie in catalogo: un paradosso, data la centralità che nella ricerca è stata data proprio al modo in cui Marini fotografava le sue opere.