«Sono un nativo del Pd e ne sono orgoglioso. Ma il partito che voglio è quello del cambiamento e della trasparenza, che respira all’aria aperta e non nelle stanze chiuse». La premessa è d’obbligo, per Ignazio Marino, prima di ripercorrere un anno e mezzo di vita da sindaco con un lungo discorso davanti alla folta platea del Teatro Quirino che attende le conclusioni della conferenza programmatica indetta dal Pd romano per tentare di trovare una via d’uscita alla crisi della giunta e della città. Lo strappo col partito «che conosco, che mi ha eletto alle primarie, che mi ha emozionato con gli applausi di ieri e oggi, al di là delle aggressioni mediatiche che ho subito negli ultimi tempi», sembra ricucito, almeno per ora.

Sarà anche vero, come dice il deputato Pippo Civati, che ad essere «molto solidale con il sindaco Marino sono probabilmente l’ultimo rimasto». Ma il chirurgo, che ha ascoltato per due giorni in prima fila tutti gli interventi, rincuorato dal contributo del procuratore capo Giuseppe Pignatone (che si aggiudica il record di applausi), dalle parole dei ministri Marianna Madia e Paolo Gentiloni (che i rumors vorrebbero come prossimo candidato sindaco di Roma), dal supporto nel neo capogruppo in Campidoglio, Fabrizio Panecaldo, e dal segretario del Pd romano Lionello Cosentino, rivendica tutte le scelte fatte e annuncia: «Ora è il momento di superare diffidenze e differenze, e di unire le forze. Ed è il momento anche di cambiare quello che finora ha funzionato meno bene nel lavoro di governo, con un nuovo assetto dei talenti che compongono la giunta».

Non un vero rimpasto, ma nel giro di pochi giorni Marino dovrebbe comunicare la ridislocazione delle nuove deleghe: naufragata l’ipotesi del commissariamento con la figura del “city manager”, negata la testa del vicesindaco Luigi Nieri, annunciata «la costituzione di un importante dipartimento Europa in Campidoglio, che si appoggerà sul governo italiano e sul ministero degli Esteri», si tratta ora di sostituire l’assessora alle Politiche sociali, Rita Cutini (nel totonomi si fanno strada la vice capo di gabinetto del prefetto Pecoraro, Clara Vaccaro, e l’assessore alla Casa, Daniele Ozzimo) e il delegato allo Sport Luca Pancalli che si è dimesso venerdì. E di ridisegnare la mappa delle responsabilità, soprattutto per quanto riguarda la Scuola, il Turismo e i Lavori pubblici. Marino – a detta di tutti – com’è nel suo stile, deciderà da solo. E molto probabilmente terrà per sé la delega alle Periferie, perché è da qui – è il primo segnale che viene dalla conferenza programmatica – che bisogna ripartire.

«A me preoccupa – dice il sindaco – più la buca a Tor Sapienza che sta lì da 30 anni e nessuno ha mai riparato, che le luminarie di Battistoni a via Condotti». Il deficit nelle periferie, però, non è di attenzione ma di potere, come ricorda l’ex vicesindaco Waler Tocci: «Se Ama, Acea e Atac consumano la maggior parte delle risorse, diamo quei soldi ai municipi che pagheranno queste aziende solo se riceveranno servizi efficienti». E dai municipi (in primo luogo, Maurizio Veloccia, coordinatore dei presidenti) arriva la richiesta di «più politica, buona politica», di «modifica della governance», di «decentramento», ma soprattutto di abbattere il muro di gomma della burocrazia costruito da una macchina amministrativa inamovibile: «Il presidente di municipio riesce a parlare col sindaco ma non con il direttore di dipartimento», racconta sconcertato Veloccia. E allora, «proprio Roma – immagina la ministra Madia – potrebbe essere il laboratorio della riforma della Pubblica amministrazione». Potrebbe. Ma «per salvare Roma non possiamo aspettare la riforma governativa», ribattono i municipi.

Una dose di speranza è riposta nei quattro tavoli di lavoro, aperti durante la conferenza e che proseguiranno il confronto nei prossimi giorni, dai quali potrebbe arrivare quell’«idea di città che apre una fase anti-ciclica e rimette in moto pil e occupazione» auspicata da Lionello Cosentino. C’è poi un ultimo importante punto su cui convergono – a parole – tutti: nessuna crisi può essere risolta senza una ritrovata unità di tutte le istituzioni e i governi, nazionale e locali. Che poi vuol dire la fine di quella guerra tra poteri e correnti dem che finora ha tenuto banco a Roma. Perché «in questo momento in cui il Pd sta governando tutto, failure is not an option – sintetizza la ministra Madia citando il motto della mancata missione spaziale Usa –: non abbiamo il diritto di fallire». C’è solo da augurarsi che l’allunaggio del Pd nelle periferie non sia quello dell’Apollo 13.