«Se avessimo avuto un centesimo del pelo sullo stomaco che hanno i 5 Stelle, Marino non sarebbe caduto. Una sera, dopo l’ennesima smentita di un presunto commensale, Orfini crollò: “Non ce la faccio più”. Se non aver retto è una colpa, me la assumo. Ma noi non siamo come i grillini che digeriscono anche le pietre». A dirla tutta su come andarono le cose nel 2015, in un’intervista pubblicata ieri da La Stampa a commento dell’assoluzione completa dell’ex sindaco di Roma nel processo sui cosiddetti «scontrini» pazzi, è l’allora assessore ai Trasporti della giunta Marino, Stefano Esposito, uno dei “commissari” che Matteo Renzi aveva messo al fianco del «marziano» per controllarlo meglio.

L’altro era Marco Causi, il vicesindaco, che la sera del 28 ottobre 2015 ospitò a casa sua un vertice dem a cui parteciparono tra gli altri Esposito, appunto, l’ex assessore Alfonso Sabella e Matteo Orfini, che da commissario aveva il compito di risanare il Pd romano dopo l’uragano Mafia Capitale. Fu quella sera che, secondo il racconto di Marino, al «marziano» venne proposto di tornarsene negli Usa, spegnere i cellulari e sparire dall’Italia in modo da semplificare e accelerare la fine di una giunta che andava sempre più stretta al “rottamatore”. Naturalmente, Marino il giorno dopo ritirò le dimissioni che il 12 ottobre aveva rassegnato «non come segnale di debolezza o addirittura di ammissione di colpa per questa squallida e manipolata polemica sulle spese di rappresentanza e i relativi scontrini». E il giorno dopo ancora, il 30 ottobre, il Pd chiamò i consiglieri davanti al notaio.

Una storia che tutti, nel popolo di centrosinistra, ricordano. Ma non Matteo Orfini che ieri mattina ha rivendicato la decisione di defenestrare Ignazio Marino negando che fosse sulla scia, o meglio, utilizzando la macchina del giustizialismo politico messa in moto sui quotidiani di riferimento dem. «Mi chiedono di scusarmi. Non credo di doverlo fare – scrive Orfini in un lungo post su Fb per tentare di arginare la valanga social – Marino non era adeguato a quel ruolo, stava amministrando male Roma».

L’ex presidente del Pd si rivolge anche ai suoi compagni: «Quel partito era malato e quella amministrazione inadeguata. Molti dei protagonisti di quella degenerazione oggi si trovano in maggioranza nel nuovo corso del Pd. Se questa è la lettura possono riportare le lancette indietro. E possono ripartire da quello straordinario modello di partito pre-commissariamento e da quell’illuminata esperienza amministrativa».

Ma non funziona: «Questa pezza è peggiore del buco», risponde, tra le centinaia di commenti dello stesso tenore, Davide. E Carmen, per esempio: «Quindi le sue personali opinioni e le direttive del partito possono scavalcare il voto dei cittadini. Grazie lo terrò presente alle prossime elezioni».

Tra i consiglieri dem che firmarono davanti al notaio sono pochi quelli che hanno voglia di ricordare. Chi invece ricorda bene è il radicale Riccardo Magi, allora consigliere eletto nella lista del sindaco. «Il conflitto tra il Pd e Marino – scrive – non aveva una dimensione politica e purtroppo ha aggravato la paralisi amministrativa della Capitale, sprecando una rara occasione di riforma e di alternativa che quella esperienza avrebbe potuto esprimere». E nella direzione del Pd si distingue Roberto Morassut che adesso riconosce «il nostro fallimento»: «Fu costretto a dimettersi in modo innaturale, anzi assurdo, con una modalità decisamente antidemocratica».

Matteo Renzi, come Orfini, non ha remore: innesta la marcia e preme l’acceleratore. «Non si può dire che l’esperienza di Marino è stata chiusa dalla vicenda scontrini, perché su quello gli attacchi venivano dai M5s, da uno che portava le arance e ora è agli arresti. Sono contento che Marino sia stato assolto, ero contento per la Raggi, l’ho anche chiamata (ma non ha chiamato Marino, ndr) perché non possiamo fare politica facendo processi ma sconfiggendoli alle urne e l’incapacità della Raggi è sotto gli occhi di tutti».

Virgina Raggi invece – dimenticando l’esposto con cui cominciò la campagna scontrini e il tormentone sulla Panda rossa, dimenticando le arance mostrate quando la procura aprì l’inchiesta, e tutto il resto – tace. Il pelo sullo stomaco nel frattempo è diventato una folta pelliccia.