Dopo il successo di Attila in apertura della stagione 2018-2019 della Scala, il primo titolo del nuovo anno è ancora verdiano. Si tratta della Traviata, opera così nota da essere assurta ai fasti perigliosi del pop: tutti la chiedono, tutti la danno, con risultati non sempre all’altezza di una macchina musicale e scenica in cui il rischio di banalizzazione, come si confà a ogni feuilleton, è continuamente in agguato. L’allestimento, in cui spiccano la regia sobria e naturalistica di Liliana Cavani, le scene sontuose di Dante Ferretti e i costumi preziosi di Gabriella Pescucci, è quello andato in scena per la prima volta il 21 aprile 1990 con la direzione di Riccardo Muti e nel cast Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e Paolo Coni. Il fantasma di Luchino Visconti, in particolare quello del Gattopardo, della cui colonna sonora alcune melodie della Traviata sono parte integrante, aleggia su uno spettacolo cui si è certamente ispirato Martin Scorsese, che ha voluto Ferretti e Pescucci nel film viscontianissimo L’età dell’innocenza (1993), e che nel corso degli anni è diventato un classico che ha visto succedere a Muti sul podio Lorin Maazel, Carlo Montanaro e Nello Santi, mentre tra le protagoniste vanno ricordate almeno Andrea Rost, Angela Georghiu e Anna Netrebko.

CENTRALE per la buona riuscita della ripresa presente di questo best-seller è l’interpretazione del soprano lettone Marina Rebeka, che ha già cantato la parte di Violetta alla Wiener Staatsoper, al Metropolitan di New York e all’Opéra di Parigi. Non si tratta, come accade nella maggior parte dei casi, di un soprano drammatico d’agilità, il mito immortale del teatro romantico (incarnato da Giuditta Pasta e Maria Malibran), ma la pasta vocale timbrata e omogenea, la buona estensione, un fraseggio invidiabile e un’identificazione totale con il personaggio consentono alle Rebeka di risolvere tutte e tre le famigerate declinazioni vocali previste da Verdi per il ruolo: soprano di coloratura, soprano drammatico, soprano lirico. Le fanno da spalla il sempre bravo Francesco Meli, che dà vita a un Alfredo pieno di slanci e ricco di sfumature, e la vecchia gloria Leo Nucci, scenicamente a suo agio in un ruolo interpretato mille volte, ma vocalmente ormai ridotto a un’ombra del passato.

SUL PODIO il coreano Myung-Whun Chung, direttore verdiano di riferimento del nostro tempo, che come di consueto dà prova di grande energia nelle sezioni drammatiche e di estrema delicatezza in quelle liriche, cercando di assecondare lo slancio vocale del soprano, che dando tutta se stessa nel ruolo a tratti finisce per perdervisi, e le ristrettezze del baritono, che rifugiandosi in un sillabato a tratti stentato, nei numeri d’insieme crea varie distonie. Repliche fino al 17 marzo.