Nonostante l’attenzione riservata dall’editoria italiana a Marina Cvetaeva, restavano e restano da scoprire ancora alcuni titoli, fra cui il lungo poema epico basato sul folclore russo, Car’ devica, (Zar-fanciulla), scritto nel 1920, e pubblicato a Berlino nel 1922. Appena uscito in prima edizione italiana con il titolo La principessa guerriera Una fiaba in versi, il libro è curato da Marilena Rea, autrice anche di una raffinata prefazione (Sandro Teti editore, pp. 296, € 22,00 con belle illustrazioni dall’edizione del 1922), che ha affrontato una vera e propria sfida data la complessità del testo, ingegnandosi (con successo) a riprodurre l’alternanza dei metri e degli stili originali.

Nel poema, due fiabe della raccolta di Aleksandr Afanas’ev (n. 232 e n. 233, Antiche fiabe russe, Einaudi 1953) si innestano sul mito dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito, che più volte Cvetaeva rivisiterà nel corso degli anni Venti. Lo Zar-fanciulla (meglio sarebbe stato lasciare così il titolo anche in copertina con l’opposizione maschile/femminile) è «una cosa russa e mia», scrive Marina alla sorella nel 1920, alludendo al suo amore per il folclore russo, rielaborato in una prospettiva assolutamente personale.

Vi si racconta la tragedia degli «incontri mancati», il paradigma cvetaeviano per eccellenza dell’amore, attraverso la storia di un vecchio zar corrotto e ubriacone, del suo fragile figlio musicista, della sua bellissima e giovane seconda moglie che farà ricorso alle arti magiche per sedurre il figliastro. Protagonista, la figura androgina di vergine guerriera, Zar-fanciulla, «un colosso di statura», forte e possente, che ricorda Clorinda, Giovanna d’Arco e altre amazzoni leggendarie.

Innamoratasi del giovane Zarevic, sensibile e malinconico, appassionato solo di musica, Zar-fanciulla parte dal suo regno al di là dei mari alla ricerca dell’amato, poi lo corteggia con l’aiuto della magia bianca, mentre la matrigna disperata ricorre alla stregoneria per ostacolarla e conquistare l’amore o quanto meno il corpo del figliastro.

I due personaggi positivi del poema, Zar-fanciulla e lo Zarevic, figli del Sole e del Cielo – luminoso il primo, volatile il secondo – mostrano una confusione dei ruoli sessuali che sembrerebbe corrispondere alla proiezione immaginata da Marina Cvetaeva di due diverse immagini di sé: l’amazzone forte e indipendente che avrebbe voluto essere e l’artista vulnerabile che era. I due personaggi negativi, la matrigna e lo zar, sono invece rinchiusi in un mondo buio, lei nella notte senza fine degli inferi, lui nelle viscere della terra dove scorre il vino che ha il colore del sangue di cui innaffia il suo regno.

Divisa in tre Notti e tre Incontri (più una Notte ultima e una Fine) la storia – nella quale tutti i personaggi muoiono, come accade più nelle tragedie che nelle fiabe, ha un epilogo «politico» inatteso: la folla popolare, stanca dei soprusi, si ribella allo zar e proclama il trionfo della Russia rossa. Tipica di molte opere di Cvetaeva, la scena apocalittica, che segna la fine di un’epoca, non è certo un omaggio al potere bolscevico, come scrive il critico letterario Simon Karlinsky; d’altronde Cvetaeva non aveva mai nascosto, insieme alla sua impossibilità di accettare la realtà, il rifiuto della rivoluzione di Ottobre.