Sonecka (a cura di Serena Vitale, traduzione di Luciana Montagnani, Adelphi, pp.278, euro 14,00), o meglio Racconto su Sonecka come suona il titolo nell’originale russo (perché cambiarlo?) è uno di quei piccoli libri che sulla bilancia del cuore possono pesare più di intere biblioteche. La sua lettura ha conseguenze indelebili, come tutto ciò che è stato scritto sotto il dettato della fatalità e della necessità. Durante l’estate del 1937, mentre trascorre qualche settimana di vacanza con suo figlio Mur a Lacanau Océan, sulla costa della Gironde, Marina Cvetaeva compie un atto che è poetico tanto quanto è magico: evoca un fantasma, un tempo irrimediabilmente perduto, un sentimento dell’arte e della vita che come un vessillo di antichi cavalieri sventola sulle macerie della Storia. Riguarda pochi mesi di vita, trascorsi a Mosca nel 1919, l’anno in cui le sofferenze della guerra civile raggiunsero l’indicibile.

Dal cibo quotidiano alla speranza, mancava tutto. Nella fatiscente casa di vicolo Boris e Gleb, Marina cresce due bambine da sola, vendendo il vendibile, cuocendo miglio e patate gelate su una stufa alimentata con i mobili, ridotti in combustibile a colpi d’ascia. Ma c’è sempre qualcosa da dare e da ricevere, rinnovando ogni giorno, sull’orlo della fine per inedia, il miracolo dei pani e dei pesci.

Infestata da molesti «inquilini», la casa si sviluppa in verticale, fino alla famosa soffitta (con accesso al tetto) che è lo scenario di tante pagine dei meravigliosi Taccuini: Marina li confezionò da sola prima di riempirli della sua scrittura, zampillante dalle più pure e segrete regioni dell’anima. Oggi quella casa è un museo nel cuore di Mosca. Una disgraziata risistemazione urbanistica ha invece spazzato via i pioppi davanti alla porta, tanto amati da Marina, che si vedono in qualche vecchia foto. I Taccuini non ci parlano solo di una vita interiore ricca ai limiti della sopportazione, di quell’«ipocondria dell’anima» pronta a gioire e soffrire senza risparmio fino alla consunzione. Sono anche la cronaca di un reticolo fittissimo di relazioni, con uomini e donne, tutte collocate sul crinale sottile che distingue l’amore dall’amicizia.

Una stella del teatro moscovita
Vent’anni dopo, scrivendone dall’esilio in Francia, Marina è consapevole che quella è stata la sua stagione felice. «Ricordare è invecchiare», riflette a un certo punto: come se il gesto stesso di protendersi verso l’immagine remota di coloro che abbiamo amato stampasse nella coscienza il marchio indelebile della caducità e del rimpianto. Quanto alla felicità, essa ha un volto: quello insieme pallido e infiammato (non è l’unica coincidenza degli opposti) di Sof’ja Evgen’evna Gollidej, effimera stella del Teatro d’Arte di Mosca, per un certo periodo pupilla di Stanislavskij che poi la abbandonò al suo destino, scoraggiato dal suo carattere indomabile. Sonecka, come la chiamano tutti, è una ragazza pallida, con due grandi occhi neri e i capelli annodati in lunghe trecce. Il fisico è così minuto che a vent’anni ne dimostra quattordici. Nel suo repertorio spicca l’interpretazione della Nasten’ka di Dostoevskij, che ebbe un grande successo, tanto da farla chiamare, come tanti anni dopo ricorda Marina, «quella delle Notti bianche». Più in generale, il monologo e la recitazione di grandi testi della tradizione letteraria sarebbero rimaste la specialità di Sonecka fino a che la necessità la obbligò ad accettare qualunque tipo di scrittura in misere compagnie filodrammatiche di provincia. Morì nel 1934 ormai completamente dimenticata.

Nell’estate del 1937, Marina Cvetaeva è ormai arrivata al vertice della sua sapienza di artista. L’incandescenza perpetua della sua poesia sembra essersi trasferita in una prosa di stupefacente prensilità emotiva, governata da un uso inconfondibile della punteggiatura (i famosi, abbondantissimi trattini). Basterà, per rendersene conto, percorrere il suo sfolgorante epistolario, impareggiabile romanzo picaresco dell’anima. Anche in un’epoca in cui i grandi abbondano, pochi scrivono come Marina.

Il Racconto su Sonecka potrebbe essere paragonato, per l’intensità della visione e il supremo controllo formale, al Dono di Nabokov, composto proprio tra il 1935 e il 1937. È come se questi due geniali esiliati, separati dalle fonti vive della loro lingua madre, fossero consapevoli di tenere tra le dita il filo d’oro di una tradizione che risale a Puskin e Gogol’ e che, attraverso il simbolismo e poi le avanguardie, ha contribuito in maniera decisiva e sorprendente a definire l’essenza stessa della modernità e della sua vocazione all’esperimento. Ma se Marina partecipa con tutta se stessa alle terribili vicissitudini della generazione «che ha dissipato i suoi poeti», come l’avrebbe poi definita Roman Jakobson, non per questo è meno sola, sospinta com’è da un perenne stato d’emergenza che coinvolge ogni aspetto dell’esistere, dalle preoccupazioni materiali per la sopravvivenza alla sensibilità e all’ispirazione.

Il primo nucleo in francese
Il lungo e tutto sommato infelice esilio francese (terminato nel 1939) rappresenta una stagione decisiva nel suo itinerario creativo. Non a caso sono scritte in francese alcune pagine che appartengono al primo nucleo della rievocazione di Sonecka, inserite poi nel corpo del Racconto scritto in russo nel 1937, così da trasformarlo, a tratti, in un testo bilingue (mentre la frequente citazione di poesie proprie ed altrui ne fa una specie di prosimetro: sono caratteristiche formali che bastano a desumere il tasso di inventività di questo testo straordinario). Ma ciò che più conta mettere in luce è come ormai l’arte del ritratto verbale sia maturata a perfezione nella prosa di Marina, fino al limite estremo delle possibilità espressive. Come se tutta la sapienza accumulata fosse il veicolo di un viaggio a ritroso nel tempo e insieme il dono da deporre ai piedi dell’essere umano più prezioso, irripetibile, indimenticabile. Perché proprio questo è Sonecka, incantevole e impossibile come un elfo che ha perduto la strada del suo regno e si trova costretto a dibattersi in un mondo feroce e incomprensibile.

L’infantile, volubile, sentimentale Sonecka (Marina non se lo nasconde e non lo nasconde al lettore) aveva tutte le caratteristiche per essere amata o detestata dal prossimo. I colleghi, ad esempio, sopportavano poco la sua incapacità di lavorare insieme agli altri, di collaborare a un progetto condiviso, che avrebbe finito per distruggere una carriera iniziata sotto i migliori auspici. Ovviamente, le donne la detestano e gli uomini la amano in maniera sbagliata, finendo per volgerle le spalle sul più bello.

Marina, che ha solo tre anni più di lei, la adora integralmente sia per i suoi pregi che per i suoi difetti. Per molti aspetti le assomiglia: primo fra tutti, una sostanziale estraneità alle vicende storiche, alle quali l’attrice e la poetessa oppongono caparbiamente una dimensione puramente affettiva dell’esistere, fondata sulla tenerezza, sul gioco, sulla costante predisposizione a innamorarsi. Agli occhi di Marina, insomma, l’eccezione incarnata da Sonecka è il bene umano più prezioso, e nello stesso tempo un terribile pericolo: «il pericolo che la singolarità costituisce». Ma come si fa a rendere conto di materie così impalpabili, ai limiti del frivolo, come sempre sono quelle che costituiscono il fascino di un essere umano?

Marina compie un vero miracolo, perché ci fa vedere Sonecka, ci fa ascoltare la sua voce, quasi ci introduce con la maestria del suo stile a un’intimità altrimenti inviolabile. E se dopo la lettura del Racconto andiamo a cercare una foto di Sonecka, avremo l’impressione di riconoscerla, tanto Marina è capace di giocare con un numero ristretto di tratti fisici (il corpo minuto, le trecce, gli occhi enormi…) senza mai enunciarli una volta per tutte, facendoli riapparire nel punto esatto in cui si offrono all’immaginazione del lettore con tutta la loro forza evocatrice.
Sonecka emerge da queste pagine come una colomba dal foulard di un prestigiatore. Ed è Marina stessa, in una delle sue fulminanti digressioni, a riflettere sulle possibilità offerte dall’«inesistenza plastica» del ritratto verbale, paragonata alla scultura. Il primo è «infinitamente accessibile e malleabile», mentre una statua «pone agli occhi un limite con ogni punto della sua superficie». Ma questa infinita accessibilità e malleabilità non è data proprio dal fatto che è il lettore ad essere messo nelle condizioni di collaborare attivamente con il testo, dissetandosi ai suoi innumerevoli fiotti?

Ritratti già composti

Certo, non si arriva a tali vette al primo tentativo, e nel 1937 la Cvetaeva ha già composto una considerevole galleria di ritratti, di vivi e di morti. Un esempio abbastanza vicino nel tempo è quello di Natal’ja Goncharova, terminato a Meudon nel 1929: anche questo testo è uno dei vertici della prosa della Cvetaeva, e proprio la sua eccellenza ci illumina sul Racconto su Sonecka che Serena Vitale, senza mezzi termini, definisce il suo «più grande prodigio». Grande pittrice cubista e discendente di Puskin, Natal’ja Goncharova è una donna realizzata, almeno per quanto è concesso ai mortali, che ha trovato nell’atelier di Parigi il suo posto nel mondo. Sonecka, il «pericolo» vivente, è il suo esatto contrario: tutto in lei è randagio, precario, approssimativo. Il suo posto, semplicemente, non è mai esistito: né nel teatro né fuori. Come il Walter Benjamin di Hannah Arendt, come il De Pisis di Giovanni Comisso, come il Mandel’stam di Iosif Brodskij, Sonecka è fondamentalmente un’emarginata, uno splendido spreco umano, una rotella che non si adatta al grande congegno del mondo che finisce per espellerla da sé.

È un’immagine perfetta dell’anima in quanto «straniera sulla terra», per usare le parole immortali di Georg Trakl. Non è un elementare senso pratico o l’istinto di sopravvivenza che le mancano (ne possiede più di Marina, se è per questo), ma il suo rifiuto di attribuire realtà al reale non è per questo meno scandaloso e catastrofico. A distanza di vent’anni dal breve periodo di intimità di cui racconta, Marina ha la sensazione che tutto quell’incontro fatale si sia svolto in «una sola, unica notte, interminabile e fuggevole». È una notte d’inverno del 1919, a Mosca, priva della luce e del calore che non siano quelli prodotti dalla frizione di due spiriti innamorati e complementari. Ma è anche la notte mistica, la notte delle fiabe, la notte anarchica che mette a tacere il rumore di martello della Storia.

E ha ragione da vendere Marina, quando ci suggerisce che non c’è nulla, nella nostra vita, che abbia una maggiore importanza, un maggiore peso, di ciò che è riuscito a durare il tempo di una notte pur essendo così effimero, così destinato al sacrificio, così pieno di una gioia pungente come un dolore. È un viaggio, quello del Racconto su Sonecka, «oltre la frontiera del tempo e del visibile». E dunque, una discesa all’Ade. Ma io, dice Marina, «sono andata oltre Ulisse». Perché ai morti porto in offerta il mio stesso sangue.