Se c’è una cosa che potrebbe deporre a (s)favore di un ipotetico patto contratto da Marilyn Manson con il diavolo, è proprio la sua straordinaria longevità, tanto più sorprendente nell’era del digitale tutto e subito nella quale i miti e le star dell’altro ieri cedono senza troppi complimenti il passo alla novità du jour. Trascorsi i fasti degli anni Novanta, l’ex Brian Warner ha faticato non poco a conservare alto il tasso d’interesse intorno alla sua persona dopo The Golden Age of Grotesque del 2003. Eat Me, Drink Me e The High End of Low, album purgatoriali ma estremamente interessanti se considerati come momenti di nudità confessionale, sembravano confermare l’immagine di un Manson alle corde dello star system.

Con il recentissimo The Pale Emperor, suo secondo album per una label indipendente, l’ex nemico pubblico della destra ultrareazionaria statunitense non solo conferma i segni di riscatto contenuti in Born Villain del 2012 ma rilancia Manson come musicista determinatissimo a non gettare la spugna. Prodotto assieme a Tyler Bates, già collaboratore di Rob Zombie e autore di centinaia di colonne sonore, fra le quali anche di Californication, il serial Showtime scritto da Tom Kapinos, dove nel scorso della sesta stagione il musicista compare nell’episodio The Dope Show, il nuovo album non sfigura al fianco di classici come Mechanical Animals.

Annunciato come headliner al Caribana Festival di Crans-près-Céligny, comune svizzero del Canton Vaud, situato nel distretto di Nyon, Manson era atteso al varco. Il Caribana, noto come il più piccolo dei grandi festival musicali svizzeri, è il fratello minore del Paleo che si svolge sempre a Nyon, considerato unanimemente il più grande evento musicale open air elvetico. Il palco grande (la grande scène) situato sulla riva del lago Lemano, il cui parterre ospita agevolmente sino a seimila persone garantendo un’ottima visibilità da qualsiasi distanza e posizione, ha attirato un’ordinatissima folla goth la quale, nonostante il piacevole caldo estivo, non ha rinunciato alle divise d’ordinanza.

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Che qualcosa nel frattempo è cambiato nella demografica del pubblico mansoniano lo si capisce dalla bimba nerovestita che indossa un’enorme t-shirt di Born Villain. Alle 23.46, con un solo minuto di ritardo (la proverbiale puntualità svizzera), Manson sale sul palco annunciato dalle note del Requiem mozartiano. Si parte con Deep Six, seconda traccia del nuovo album seguita immediatamente da Disposable Teens, da Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death). Manson, a dispetto del titolo del disco, è nerovestito d’ordinanza con un makeup che richiama alla memoria sia Kang il conquistatore (arcinemico dei Vendicatori) sia il Peter Gabriel di Shock the Monkey. La voce è quella di sempre, e semmai è migliorata: calda, profonda, bowieana, in grado di gestire molteplici registri senza problemi.

Sul palco anche il figliol prodigo Twiggy Ramirez con il quale Manson rievoca numeri stile Bowie-Mick Ronson dell’era Ziggy Stardust. La formazione della band (tre più uno) esprime bene il desiderio di classicità rock’n’roll di Manson. Il suono è compatto, nonostante qualche problema tecnico iniziale, la scenografia essenziale, la setlist concentrata su qualche brano nuovo (Third Day of a Seven Day Binge) e moltissimi classici del passato recente. Manson si rivolge spesso ai presenti con l’inevitabile motherfucker, vorrebbe che il pubblico rispedisse l’epiteto al mittente, ma l’educato e devoto pubblico lemano applaude contento, si agita, ma il tasso di eccitazione sembra non soddisfare Manson. Qualche cambio di costume un tantino prolungato non impedisce a classiconi come Sweet Dreams e alla cover di Personal Jesus di essere accolti trionfalmente. Il meglio giunge con il bis, avaro, però; un solo brano: Coma White.

Probabilmente l’apice dello show. E quando le luci si riaccendono sul palco nessuno prova ad accennare un timido «More!». Concerto contraddittorio, dunque, che rivela molte cose sul Manson del 2015, un musicista che continua a produrre musica fortemente personale ma che probabilmente soffre da qualche anno una comprensibile ansia da prestazione sul palco. Si capisce bene che Manson ci tiene alla sua musica e che vorrebbe essere considerato un «classico» americano, status per ottenere il quale è necessario trascorrere molti anni nella Wilderness divisa fra zone di media classifica e anni on the road.
La domanda è se Manson abbia intenzione di infliggersi quest’ennesimo purgatorio, considerata la feroce concorrenza dei giovani unni assetati di sangue del metal e dintorni, o se preferisca l’esilio dorato di un anticristo devoto solo alla sua arte cancellando così le urla e il furore di ieri per andare incontro solo alla musica di domani.