Natale 2000, Paesi Bassi, fattoria nel Brabante settentrionale. Una mamma cosparge la faccia dei figli con grasso da mungitura per proteggerli dal freddo. Sulla tavola apparecchiata per la colazione i tovaglioli mostrano angioletti che «si coprono il pisello con una trombetta o un ramoscello di vischio». La mamma recita la preghiera del mattino e i bambini mangiano e si puliscono le mani sulla tovaglia, tanto il giorno dopo «sarebbe stata messa nell’altro verso». Il figlio più grande si alza, prende i pattini e saluta tutti. Ha una gara sul lago ghiacciato – «torno prima del buio!» dice. Scende il buio e lui non torna.

Ha inizio così Il disagio della sera (traduzione di Stefano Musilli, Nutrimenti, pp. 251, € 18,00), romanzo di esordio dell’olandese Marieke Lucas Rijneveld, che adottando il punto di vista della terzogenita Jas, dieci anni, racconta lo sfaldarsi di una famiglia in seguito a un lutto, e le conseguenze sui figli, costretti a sopravvivere allo stato brado. Sullo sfondo di una campagna straziata da dolore e malattia, Jas e i fratelli si abbandonano alla loro inquieta curiosità, a giochi di iniziazione sessuale e a pensieri di morte. L’immaginario spregiudicato e lo stile espressionista di Rijneveld inseriscono questa favolaccia nel filone weird contemporaneo dove l’oscuro e la visionarietà sono il perturbante sottofondo della vita.

Nata nel 1991, cresciuta in una famiglia di allevatori di mucche devota alla Chiesa riformata, Rijneveld ha affrontato la rigidità calvinista e l’arretratezza della provincia con la sua identità di genere non definita e la sua lingua anarchica, corporale e spietatamente onesta.

La sua scrittura è così ricca di metafore che quasi in ogni scena del «Disagio della sera» se ne trova una. Sembra che questo reticolo di figure le serva per dare voce a ciò che rifugge dal lasciarsi nominare.
La protagonista del romanzo, Jas, ragiona per metafore, e queste metafore rendono la sua esperienza del mondo più intensa. È una bambina che si perde nelle sue fantasie, nelle sue immagini mentali. Forse ho esagerato con il linguaggio figurato, ora sono più misurata, ma allora era necessario per me ritrarre allusivamente l’atmosfera della campagna e della vita di una famiglia appartenente alla Chiesa Riformata. Quando una metafora mi riesce bene mi sento così felice che mi succede di mettermi a correre attorno alla scrivania.

Lei mette in campo uno stile che è allo stesso tempo audace e crudo, senza diventare perciò smaccatamente disturbante.
Non ho mai considerato la penna come un’arma. Non ho mai voluto provocare né ferire nessuno, intendevo invece toccare le corde più intime dei lettori, e soprattutto le mie. Jas è innocente, come lo sono i bambini, è devota alla sua famiglia e a Dio, ma a un certo punto proprio questa sua devozione la fa crollare. Ho cercato di rendere il tono di un bambino, la determinazione e lo stupore per le piccole e grandi cose della vita. Nella scrittura mi ha aiutato la profonda identificazione nelle opere di Jan Wolkers, che mi ha sempre attratta per la sua capacità di mostrare la forza dell’inesorabile. Mi sono riconosciuta nelle sue descrizioni della religione e della natura, talmente potenti da indurmi a imitarlo. Anche la Bibbia mi è stata di grande ispirazione, con il suo meraviglioso linguaggio e il simbolismo delle storie, che da piccola trovavo terrificanti. Bisognerebbe impedire di leggerla prima di una certa età. Ma, come molti, ho anche vissuto a lungo nel mondo di Harry Potter e ho sognato di vivere a Hogwarts.

Lei descrive Jas sempre «avvolta in un giaccone di paura»: che valore ha, per lei, una simile immagine?
Jas si comporta come chi, dopo avere perso una persona amata, non si lascia andare ma va avanti tenendo duro, usando a suo favore la paura di perdere tutto. Non rinuncia a niente, colleziona oggetti, e teme di ammalarsi perché ha il terrore di morire. Crede in un Dio vendicativo, che dà e toglie. Il giaccone che Jas si tiene sempre addosso è la sua protezione contro le malattie, ma funziona anche come simbolo di ciò che accade quando in una famiglia si parla poco di argomenti importanti, come la morte, la sessualità, e altri accidenti della vita, con i quali Jas, nonostante sia una bambina, deve fare i conti da sola.

Il libro sembra, in effetti, un dialogo tra Jas e la morte: «I pensieri di morte sono contagiosi» dice. Aveva in mente fin dall’inizio la fine cui sarebbe andata incontro?
No, all’inizio non avevo idea di come l’avrei conclusa. Ho fatto tante stesure e ho scritto tanti finali diversi, in alcuni dei quali Jas se la cavava molto meglio. A volte mi intristisce l’idea di non aver scelto una soluzione diversa, penso che avrei potuto offrire alla bambina qualcosa di più; ma sentivo che doveva andare così, perché Jas era intrappolata nella sua mente, nelle sue paure, e non riusciva venire a capo della sua curiosità per la morte.

Insieme alla sua traduttrice inglese Michele Hutchison, lei ha vinto l’International Booker Prize. Vi siete confrontate durante la traduzione?
No, ero impegnata nel nuovo romanzo e non volevo distrarmi, perciò il mio editore ha fatto da tramite per i dubbi. Mi è dispiaciuto non farmi coinvolgere di più, comunque Michele Hutchison ha fatto un lavoro fantastico, perché ha saputo restituire con efficacia la consonanza del romanzo con la lirica e questo l’ha aiutata a rendere l’atmosfera della campagna olandese in maniera impeccabile e a immergersi profondamente nell’ambiente e nel modo in cui i personaggi comunicano tra loro.

Il romanzo risente della sua iniziale dedizione alla poesia: la messa a fuoco degli argomenti riproduce, a volte, la sinteticità dei versi, è d’accordo?
Quel che so è che ho pensato da sempre che avrei scritto un romanzo, non sapevo però in quale forma. Nella prosa riaffiora il mio passato di poeta, così come nella poesia a volte si affaccia la mia vena romanzesca, e entrambe queste parti di me si sostengono, si rafforzano e si migliorano a vicenda. Nella poesia sento di avere molta più libertà, non devo accompagnare il lettore per mano, l’eventuale sconfinamento in un territorio ostico è messo in conto. Nei romanzi è necessario invece creare una tensione diversa, allestire una trama, bisogna fare in modo che il lettore non si arrenda dopo le prime pagine. Nella mia mente, la poesia è un parco giochi, e la prosa è come uno scivolo: non vedi l’ora di sfrecciare giù all’impazzata ma allo stesso tempo sei sopraffatto dalla paura dell’altezza.