“Il mio lavoro è di dare voce ai testimoni delle guerre…” diceva la reporter Marie Colvin, straordinaria testimone dei nostri tempi, morta in Siria nel 2012. La sua storia di coraggio, di decisione, di fermezza nel raccontare la verità delle guerre è stata raccontata in A private war un biopic di Matthew Heineman in questi giorni nei cinema.

Tuttavia il film, pur con una sceneggiatura di ferro, ricostruzioni di scene di guerra ben fatte e con una intensa recitazione della protagonista Rosamund Pike, racconta la reporter americana del Sunday Times in modo molto diverso dalla Marie Colvin che avevo conosciuto nel 1998 durante iprimi fuochi della guerra del Kosovo.

La incontraì, per la prima volta, all’imbrunire di un gelido giorno di marzo del 1998. I militari delle forze speciali serbe, pesantemente armati, scendevano incolonnati, uno dietro l’altro, da alcune stradine di Srbica (oggi Skenderai), un paesetto vicino a Pristina nella valle di Drenica. In silenzio passavano davanti alla mia auto italiana, parcheggiata a un lato di un incrocio, guardandomi uno dopo l’altro con gli occhi appuntiti, i volti irrigiditi, semi coperti dai balaclava calzati sotto gli elmetti. L’unico rumore nell’aria era quello degli scarponi militari che calpestavano l’asfalto.

All’improvviso sentii uno stridio di freni. Mi girai e vidi auto grossa, tipo Range Rover, con due donne che parevano un po’ smarrite per essere finite nel mezzo a una raggelante operazione militare. Feci loro segno di seguirmi. Qualche chilometro dopo ci fermammo prudentemente dietro una casa. Intorno a noi era pieno di cecchini delle forze serbe, contrastati da quelli kosovari. Qualche paesetto era tenuto da serbi ed altri, come Lauscha, dagli indipedentisti. Scese dall’auto una donna alta, molto affabile, ma con lo sguardo deciso.

Marie Colvin era riuscita ad arrivare a Srbica, superando una dozzina di posti di blocco, insieme alla sua acerba traduttrice kosovara. In quei giorni altri giornalisti internazionali non erano riusciti a passare e i loro autisti kosovari erano stati picchiati.

Come aveva fatto? “Siamo due donne.. i militari hanno provato a fare gli stupidi, ma dopo ci hanno fatto passare… forse pensavano che fossimo innocue”, disse ironica. Poi mi guardò un po’ curiosa: “E tu?”. Gli indicai la mia auto, aveva la targa italiana. Aggiunsi che mi ero anche procurato un permesso speciale delle autorità serbe per filmare i monasteri ordossi sparsi per il Kosovo. Sorrise capendo che il mio intento non era certo quello di filmare i pope ortodossi.

Marie era esperta della Palestina, aveva intervistato Ghedafi, era stata in Cecenia, ma era la prima volta che lavorava nei Balcani. Non capiva ancora i complessi meccanismi di quei luoghi “dove sotto una verità si nasconde sempre un’altra verità”. Era però già riuscita a scrivere degli articoli pieni d’emozione e sincerità, come quello sulla strage di Precaz avvenuto a poca distanza da dove ci trovavamo. Mascherava bene una forte determinazione professionale con un sorriso delicato e fascinoso. Non era una giornalista interessata a scoprire “che tipo era un aereo che aveva appena bombardato un villaggio o se l’artiglieria che ha sparato contro di esso era di 120mm o 155mm”.

Si chiese che ci stessi fare a Srbica all’imbrunire, da solo e mi disse: “Se hai qualcosa importante per le mani possiamo farlo insieme”.

La sera stessa ci ritrovammo all’hotel Park di Pristina, popolato da tutti i generi di professionisti della guerra, soprattutto da giornalisti. Nella città kosovara ne eravano arrivati più di cinquecento. Si domandavano chi fossero quelli dell’UCK, i guerriglieri ancora avvolti nel mistero. A marzo del 1998 a Pristina c’èra un’aria indecifrabile, ma erano palpabili le condizioni per lo scoppio l’ennesimo sanguinoso conflitto balcanico. La BBC aveva trasmesso un piccolo frammento di un’intervista registrata in Albania, dove un uomo in divisa mimetica parlava di spalle. Ma era troppo poco per definirla una intervista a un comandante dell’UCK. In quel momento, non si sapeva nulla dell’UCK, che faccia e nomi avessero i capi e quali fossero le loro idee. Con Marie parlai a lungo della situazione. Era una donna molto intelligente e anche umile, anche se era la corrispondente di un grande giornale internazionale. Non beveva smodatamente e non era a caccia di avventure, come si racconta nel film. Aveva una grande volontà di raccontare in modo veritiero quella guerra. In quel momento le dissi solo quello che le potevo dire. Molto perspecicace, Marie capì però che stavo lavorando a qualcosa di sostanzioso.

Alcuni giorni prima avevo conosciuto una giovane donna che negli anni ’80 era stata imprigionata dai serbi perché faceva parte di un gruppo di studenti kosovari maoisti-irredentisti che avevano manifestato per l’indipendenza. Il fidanzato, il capo di quegli studenti, era ancora in galera in Serbia. La giovane non era dell’UCK, ma forse poteva conoscere qualcuno di loro. Per diversi giorni cercai di conquistarmi la sua fiducia. Un giorno finalmente mi disse di aver combinato un incontro segreto in un paese a qualche chilometro da Pristina.

Raccontai a due giornalisti di primarie testate italiane della possibilità di incontrare quelli dell’UCK. Entrambi accamparano scuse per non allontarsi da Pristina. Non ci voleva molto a capire che avevano paura. Al contrario Marie mi rispose immediatamente che sarebbe venuta.

Nel frattempo il freddo e i disagi del lungo viaggio dall’Italia mi avevano stremato. Per qualche giorno Marie dovette curarmi da un malanno, una specie infiammazione ai polmoni con la febbre alta, ospitando nella sua camera, perché al Park Hotel non ce ne erano altre riscaldate disponibili. Appena mi ripresi andai dalla giovane donna kosovara che confermò l’incontro.

Partii il giorno dopo all’alba con Marie e Ilmie, la mia traduttrice. Superammo i diversi posti di blocco. I militari serbi resi innocui dal sonno e dal freddo pungente ci dicevano “Aide.. aide” (vai.. vai) senza neanche controllare il mio permesso per andare in giro per tutto il Kosovo a filmare i monasteri serbi. Arrivammo velocemente a Klina, un paesetto all’imbocco della valle di Drenica. La piazza era deserta. Il silenzio era totale. Aspettammo a lungo vicino a negozi sbarrati. Pensammo che fosse saltato l’incontro e stavamo per andarcene. Ma poi vedemmo una persona, sui cinquanta anni, corporatura massiccia, che con fare circospetto si avvicinava. Ci strinse la mano e si definì “un sindacalista”. “Da qui in avanti bisogna andare a piedi” disse. Con Marie ci scambiammo sguardi interrogativi. Decidemmo di seguirlo. Prendemmo una strada che saliva verso le montagne. Era interrotta da muri di sassi, modeste barricate contro i blindati serbi. Dietro ogni curva sbucavano delle persone silenziose che ci scrutavano. “Chi sono?” chiesi alla nostra guida. “Osservatori” rispose serio. La nostra traduttrice era tranquilla, ma io e Marie ci chiedevamo con degli sguardi dove stessimo andando: verso un incontro con l’UCK o verso una trappola o un rapimento? Qualcosa della nostra guida ad istinto mi rassicurava. Feci un cenno a Marie che proseguivamo. Dopo tre chilometri di faticosa salita arrivammo in un paesino da cui si scorgeva tutta la vallata: sullo sfondo le colline bruciate dal vento, incorniciate in lontananza dalle imponenti catene montuose ancora innevate che circondano il Kosovo sul confine con il Montenegro. In una casetta al limite di un bosco di querce ci stava aspettando un gruppo di persone. Gli anziani vestiti con giacche consumate erano cordiali, i giovani infagottati con pesanti maglioni di foggia montanara sera erano più diffidenti, soprattutto con Marie. Seduti intorno a un tavolaccio ci sottoposero ad un lungo controllo dei documenti e a numerose domande. Notai che il passaporto americano di Marie e la tessera stampa inglese avevavo molto insospettito i più giovani. Anche Ilmie era preoccupata. Mi disse sottovoce che pensano che Marie fosse una spia americana.

Non diedi rilevanza alla loro diffidenza. Gli mostrai l’intervista video che avevo fatto una settimana prima in Macedonia a Osmani Rufi, il sindaco di etnia albanese di Gostivar, che aveva subito attentati e aggressioni. “Sapete chi è Osmani?” chiesi loro. Assentirono incuriositi e guardarono a turno il filmato nel view finder della telecamera. Marie capì che stavamo facendo breccia nella loro diffidenza.

“Rufi non rimane muto..” dissi loro. “E voi? Tutto questo mistero sul’UCK può far pensare che nascondete altro” aggiunsi. Confabularono tra di loro. Incaricarono un messaggero di salire al campo base dei guerriglieri. Diventarono gentili anche con Marie e ci offrono del tè. Alcuni di loro ci mostrarono dei documenti, dei mandati di cattura serbi dove c’era scritto “per sospetta appartenenza all’UCK“ , ma non erano militari erano dei civili.

Dopo una ventina di minuti entrò un giovane con giubbotto di pelle nera, divisa mimetica e colbacco nero di pelo. Aveva il volto bruciato dal freddo e i modi da militare di professione. Era piuttosto duro, non voleva parlare. Poi ci disse di aver fatto la scuola di ufficiale a Belgrado.

Marie gli fece una domanda. Rispose con arroganza forse per mascherare l’imbarazzo di trovarsi davanti a degli stranieri, a una donna. “Non c’è bisogno di fare dichiarazioni. La realtà è di fronte gli occhi. Non bastano i massacri visti? I villaggi distrutti? I profughi che scappano dalle case per paura della polizia? Abbiamo avuto ottanta morti in due settimane, questo è un dato oggettivo, scrivi questo!” le rispose.

Poi piano piano il comandante kosovaro si rilassò e iniziò a rispondere ad altre domande.

Quando tornammo all’albergo stanchi morti e sporchi di fango, nella sala da pranzo Marie si mise subito al computer per scrivere la storia. Ogni tanto mi chiedeva conferma di una frase dell’intervistato o spiegazioni sulla traduzione fatta da Ilmie. Gli altri giornalsti presenti nella sala ci guardavano con attenzione. Avevano capito che avevamo in mano qualcosa di molto importante. Soprattutto i due italiani che non erano voluti venire all’incontro, volevano sapere cosa avessi visto, ma non gli dissi nulla. Marie finìto l’articolo mi guardò soddisfatta. Era la prima ad avere intervistato un guerrigliero kosovaro a volto scoperto.

Rimanemmo in contatto anche dopo il Kosovo. Mi spronò a continuare a documentare un conflitto che sapeva che mi stava nauseando. Non ci incontrammo più, né in Kosovo né in altri fronti in guerra, anche se raccontammo gli stessi luoghi, le stesse guerre, lei con gli scriti e io con la camera. Appresi qualche anno dopo che era stata ferita ad un occhio in Sri Lanka, ma non seppi dei suoi successivi problemi con l’alcool e quelli peggiori dovuti alla sindrome di stress post traumatico (PTSD) raccontati nel film A private war. Nel 2012 venne uccisa a Homs in Siria. Avevo perso un’amica coraggiosa e una giornalista che stimavo.