Ad accompagnare la “gira zapatista” per l’Europa c’è anche una delegazione del Congresso Nazionale Indigeno del Messico. Di cui fa parte anche Marichuy, María de Jesús Patricio Martínez, colei che ha cercato di candidarsi, come indipendente, alle elezioni presidenziali che nel 2018 hanno visto la vittoria di Andres Manuel Lopez Obrador. Sarebbe stata la prima donna e la prima indigena a candidarsi ma la raccolta firme non è andata a buon fine. L’arrivo della delegazione a Roma è stata l’occasione per incontrarla e fare il punto della situazione con lei.

Com’è la situazione delle popolazioni indigene in Messico oggi?
Continua ad esserci razzismo e rifiuto del modo di vivere delle comunità indigene. Anche se ultimamente si sono sollevate molte voci contro questa situazione, il rifiuto continua ad esserci. In Messico non vogliono gli indigeni perché si oppongono a questo sistema che esclude, che continua ad ignorare, a calpestare e invadere le terre imponendo i vari mega progetti infrastrutturali ed estrattivisti. L’opposizione delle comunità indigene si è fatta sentire, ma non viene presa in considerazione nonostante l’organizzazione politica e sociale di queste comunità, e si continuano a imporre progetti che attentano alla loro sopravvivenza.

È cambiato qualcosa con l’arrivo al potere di Manuel Lopez Obrador? Perché al suo insediamento il neo-presidente parlò molto degli indigeni e aveva invitato alcuni di loro.
No, non è cambiato nulla. E lo dicono tutte le comunità indigene, non soltanto chi è all’interno del CNI. La situazione è peggiorata perché si è accelerata la spoliazione della terra, delle foreste, dell’acqua. È incrementata la repressione delle comunità che si organizzano e si oppongono. Noi ora parliamo di narco-stato perché curiosamente dove ci sono i mega progetti, e dove esiste un’organizzazione delle comunità contro di essi, subito arrivano polizia ed esercito a reprimere il dissenso e si fa strada il crimine organizzato. Che pare giocare un ruolo, insieme al governo, nel combattere l’auto-organizzazione. E ci sono i paramilitari che da sempre attaccano i compagni zapatisti e che sono avallati dal governo. Per questo diciamo che la situazione è peggiorata: ultimamente siamo stati colpiti molto duramente. Questo non vuol dire che questo governo sia peggiore dei governi del PRI o del PAN, ma è una strada già tracciata e di qualunque sia il colore del governo la situazione continuerà ad essere questa, perché c’è un accordo con il capitale. Per questo sosteniamo che c’è bisogno di creare qualcosa di differente, perché dall’alto non arriverà nessun cambiamento.

Nelle recenti elezioni statali per l’elezione di sindaci e governatori, in alcune località, come in Michoacán, le autorità locali si sono rifiutate di aprire i seggi in nome dell’autonomia. Un gesto importante, come pensa andrà avanti?
Ci sono comunità che stanno rafforzando i propri usi e costumi e l’idea di auto-governo. E non è una trovata del momento. È qualcosa che, negli anni, è stato calpestato dai partiti politici per imporre candidati o gente di fuori. E poiché si continuano ad ignorare le istanze delle comunità e non le si prende in considerazione seriamente per continuare a tenerle sottomesse, le comunità stanno applicando la propria autonomia secondo i propri usi e costumi, nominando le proprie autorità indipendentemente dai partiti politici. Io credo che in questo momento ci siano molte comunità indigene che stanno pensando che sia questa la sola cosa da fare: tornare alle proprie forme di governo tradizionali nominando i propri rappresentanti.

Ora lei è in viaggio per l’Europa con il CNI (Congresso Nazionale Indigeno) contemporaneamente alla Gira Por La Vida dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). Che rapporto c’è tra i due viaggi? E perché avete scelto di farlo?
Prima di tutto, come Congresso Nazionale Indigeno siamo stati invitati dall’EZLN, e l’assemblea che ci ha nominati per partecipare al viaggio ci ha detto «andate ad ascoltare le organizzazioni, i collettivi, i fratelli su come si stanno organizzando dal basso, come stanno resistendo. Se anche loro sono colpiti dal capitalismo come qua da noi. Come fanno ad opporsi. È il momento di articolare tutte queste lotte perché ci stanno colpendo tutti». Le comunità sono preoccupate perché si sta uccidendo il pianeta, le foreste, l’acqua e dicono che quando il pianeta collasserà o diventerà qualcosa di ancora peggio, ne faremo le spese tutti. Per questa preoccupazione che si vive in Messico si sono sollevate molte voci e si sono cercate alleanze. Per questo cerchiamo altre lotte, altri fratelli che stanno resistendo, che come noi sono colpiti da imprese e industrie. Siamo venuti ad incontrare queste lotte, queste resistenze perché dobbiamo costruire qualcosa di diverso. Dobbiamo organizzarci noi dal basso se vogliamo essere forti. Dobbiamo articolare le nostre battaglie. Anche in Messico a volte ci si divide, ci sono organizzazioni che dicono «la mia parola vale di più». Ma cerchiamo piuttosto di identificare chi è che ci vuole distruggere e organizziamoci per combatterlo prima di tutto, e poi tracciamo la lotta per quelli che verranno dopo di noi: le bambine e bambini a cui non sappiamo cosa accadrà se ora non faremo niente.

Perché pensa che non siano state raccolte le firme per candidarla come presidente alle elezioni 2018?
Perché abbiamo fatto un lavoro pulito. Inoltre avevamo lanciato la proposta di realizzare il Consiglio Indigeno di Governo, un governo collettivo, dal basso. È stato un modo di proporre e mostrare un altro tipo di governo, diverso da quello che esce dalle urne. Ci hanno posto mille ostacoli ma ci siamo spinti fin dove è stato possibile arrivare e sono state raccolte quasi 300.000 firme. Noi sappiamo che ciascuna di esse è stata frutto di una scelta consapevole, perché per ogni firma veniva spiegato di cosa si trattava e la cosa importante era che le persone ascoltassero la proposta. Non abbiamo raggiunto il numero necessario di firme ma, come abbiamo detto in una assemblea del CNI, abbiamo raggiunto i due obiettivi che ci eravamo posti: siamo riusciti a viaggiare per 18 Stati e siamo riusciti a far sentire la nostra voce, ma soprattutto siamo riusciti a far pensare ad un’altra forma di governo, di organizzazione dal basso, che ascolta il popolo: un popolo che comanda ed un governo che obbedisce.