Film a lungo maledetto, tratto da uno sfortunato romanzo di Paola Drigo del 1936, Maria Zef si prende la sua rivincita e, dopo una prima presentazione in versione restaurata alla Mostra del cinema di Venezia e un passaggio a FuoriOrario fortemente voluto da Enrico Ghezzi, viene riproposto a «I mille occhi». Non si tratta della stessa copia su cui hanno lavorato Teche Rai e Museo del cinema di Torino, proposta a Venezia, ma di un 35mm della RAI conservato alla Cineteca di Gemona. Il film, l’ultimo lavoro di Vittorio Cottafavi, fu proposto in tv (per la precisione Rai 3, allora fortemente identificata con la sua missione regionale) in due puntate nel 1981.

DAL ROMANZO AL FILM
Il romanzo porta la firma di un’autrice veneta, Paola Drigo, che in precedenza aveva scritto solo racconti (e che morì nel 1938, dopo aver inaspettatamente vinto con questo libro il premio Viareggio) ed è un raro esempio di verismo settentrionale. Già adattato per lo schermo, senza lasciare traccia, nel 1953 con il titolo di Condannata senza colpa, per la regia di Luigi Latini De Marchi, questo Maria Zef è stato girato «on location»in Carnia, interpretato da gente del luogo e da attori amatoriali, che recitano in friulano. I dialoghi scritti da Siro Angeli, poeta carnico che interpreta anche Barbe Zef, sono stati tradotti con didascalie in italiano per rendere intellegibile questa difficile lingua, disprezzata da Dante (secondo il quale i friulani «eruttan quel loro ce fastu»). L’asprezza del friulano in versione carnica – lingua non presente nel romanzo, che era stato scritto in epoca fascista, quando cioè la lingua doveva essere italianissima – ben si sposa con la durezza del racconto delle condizioni di vita dei montanari carnici, che si arrangiavano intagliando il legno, confezionando le ciabattine in velluto, oggetto del nuovo lusso pauperistico, oppure emigravano, per ritornare magari, con meno energie e meno sogni di quando erano partiti, come Barbe Zef, – il «cattivo» della vicenda.
Maria Zef ha una trama dura che Cottafavi racconta per sottrazione, scartando il melodramma in cui eccelleva per una presentazione realistica di luoghi, costumi ed eventi, con una precisa osservazione antropologica dei lavori artigianali, della preparazione del carbone, i balli e le musiche, i riti intorno al fogolar, che compete con L’albero degli zoccoli, uscito tre anni prima (ma il tono tragico, la lingua incomprensibile e la verità degli interpreti richiamano piuttosto La terra trema).

STORIE DI DONNE
D’estate tre donne trascinano per le campagne venete un carretto al quale sono appesi cucchiai e mestoli di legno, intagliati dai maschi di famiglia durante l’inverno e che vendono casa per casa. La madre è malata e Rosute, la figlia bambina, ancora spensierata; tutto è quindi sulle spalle di Mariute, una adolescente coscienziosa, costretta a crescere anzitempo. Quando la madre muore le ragazze vengono affidate alle suore, ma lo zio, Barbe Zef, le porta nella sua casetta isolata, sepolta nella neve d’inverno, ma circondata in estate dal verde brillante dell’erba di montagna. Barbe Zef impone alle ragazze un lavoro faticoso, ma concede a Mariute di partecipare a una cena dal ricco possidente del paese, che la fa ballare e le suggerisce l’unica via d’uscita per una donna carnica del tempo: andare a servizio. La ragazza invece rimane con lo zio, sperando di potersi riunire con la sorellina, ricoverata in ospedale, ma l’uomo, ubriaco, la violenta. Mariute scopre da una mammana che anche la madre aveva subito più volte violenza, e che la sorella è frutto proprio di questi stupri ripetuti, eppure resiste, in attesa del ritorno di Rosute. Quando lo zio vuole allontanarla per mandarla a servizio e portare invece a casa Rosute è costretta però a ricorrere alla violenza. Il film – destinato alla televisione – non indulge nella rappresentazione della violenza, perchè, come Hitchcock insegna, il fuoricampo è più terrorizzante del mostrare. Rabbia e ribellione covano sotto una rassegnazione radicata nel passato, una compassione verso i vinti, verso chi non ha alternative, priva però di segno cristiano.

INESORABILE E VITALE
Percorso da un fatalismo tragico ma profondamente vero – e di scuola verista – più vicino ai Malavoglia che alla denuncia sociale, il testo rifiuta infatti il cattolicesimo pietista, che le ragazze rifuggono e che Barbe Zef , la vigilia di Natale, drasticamente esclude: «Se il Signore è venuto al mondo, io non me ne sono accorto».
Inesorabile e vitale come il passaggio delle stagioni, il film usa il paesaggio per mettere i personaggi in rapporto con la natura, come il cerbiatto sgambettante nella neve, che Petoti, vivace cagnetto e unico gioco di Rosute, rincorre invano, o le civette con il loro verso inquietante, gli alberi dorati d’autunno, e il bosco tagliato, che evoca per noi la montagna violata dai tornado invernali di quest’anno.
Una miseria non solo materiale, ma anche morale, che punta il dito sulla durezza cui sono costrette queste donne, senza istruzione e senza vie d’uscita, se non andare a servizio di padroni che le vogliono a servizio completo. L’unico spazio aperto davanti a Mariute è il sentimento per Pieri, un ragazzo poco più vecchio di lei, che è partito per l’America, ma non dimentica di mandarle una cartolina. È con lui che la ragazza può camminare nei boschi, immaginando un futuro possibile, quanto improbabile, negli anni Trenta, come oggi: spopolamento delle montagne, condizione femminile, il bosco devastato.