Due notizie importanti per la vita e la carriera di Maria Pia De Vito, una delle voci importanti della scena jazz e di confine fra le musiche del panorama internazionale. Un nuovo disco in uscita che lascerà il segno, Dreamers, dedicato alla rilettura creativa dei maestri sognatori della canzone d’autore nordamericana, e un impegno importantissimo, svanito (quasi) nel nulla. Partiamo da qui. L’aggressione del virus ha fatto svaporare i concerti, previsti dal 19 al 22 marzo, di Bergamo Jazz, promosso dalla Fondazione Teatro Donizetti. Per la prima volta c’era una donna a dirigere artisticamente il reticolo di concerti ed eventi, ed era Maria Pia De Vito. Che ci lavorava da due anni,e aveva messo in cartellone, tra gli altri, Bill Frisell e Dave Holland, il Paolo Angeli del progetto sui Radiohead e João Bosco, John Surman e Joey Baron, tra gli altri. Tutto saltato.
Come hai assorbito la «botta»? 
È molto strano questo tempo, difficile da descrivere, e sarà difficile da raccontare in futuro credo. Questa fase è stata superata, sembra storia lontanissima. La «botta» è arrivata gradualmente, con l’avvicendarsi delle notizie che avevano proprio Bergamo e provincia come epicentro. Abbiamo sperato che l’emergenza rimanesse circoscritta. Poi l’incredulità, la preoccupazione, lo straniamento, perché lì era in atto una tragedia immane, mentre qui a Roma o più a sud non era comprensibile fino in fondo. La mia personale vicenda è proprio finita sullo sfondo. Ora che siamo usciti dal lockdown abbiamo aderito all’iniziativa del comune di Bergamo di realizzare degli eventi nel grande spazio all’aperto del Lazzaretto, due concerti, quello di luglio con la Cosmic Band di Gianluca Petrella e quello del 19 agosto con Enrico Rava Special Edition. Abbiamo cominciato a riprogrammare per il 2021. Con attenzione e cautela, un po’ di necessario ottimismo. Recupereremo quanto possibile, ma è mio desiderio anche programmare del nuovo.
Anche tu hai avuto l’impressione che la clausura non stimoli affatto la creatività, o in misura assai minore rispetto alle aspettative? 
Credo sia una questione molto personale; c’è chi ha trovato nella clausura una grande disciplina e ha prodotto brani, dischi, serie di concerti on line, chi ha composto… io no. Per me è stato più di tutto un notevole ritiro spirituale. Ho anzi patito l’invasione di troppo lavoro on line, mi sono sottratta alla «connessione» perpetua. Ho evidentemente bisogno di rientrare in contatto con la vita, con le relazioni e i corti circuiti creativi insieme ai miei musicisti.
Veniamo al disco, «Dreamers». Vuole essere anche un omaggio, nel titolo scelto, al film di Bertolucci sul ’68, o è solo casuale?
È solo casuale, anche se potrebbe apparire il contrario. Venendo ai «sognatori», i maestri della canzone popular moderna, io non ho compreso la fortuna di crescere circondata da quei suoni fino in fondo fino ai miei trent’anni . Il mio percorso musicale è stato un po’ anomalo. Da bambina ascoltavo i Beatles e il pop, da adolescente ascoltavo e praticavo musiche etniche, a diciannove sono stata folgorata dal jazz… e da Joni Mitchell. Il filo che mi ha unito agli ascolti dei miei coetanei è passato da lei, che aveva nelle sue canzoni un grado di complessità musicale e vocale che riuscivano a catturare il mio orecchio. Grazie a lei ho davvero conosciuto gli «altri», che erano la musica della mia comunità, che però non apprezzavo musicalmente fino in fondo. La «semplicità» armonica, o il timbro vocale di Bob Dylan e Leonard Cohen mi respingevano. Li ho pienamente scoperti da adulta, quando anche una più completa comprensione dell’inglese mi ha consentito di entrare nella poetica. Ho apprezzato a ritroso l’incanto e il senso di fortuna della mia generazione. La poesia e la prosa di Cohen, i testi di Dylan ora sono dei «libri di testo» per me. Credo che la velocità e la iperproduzione di questo momento non lascino il tempo perché crescano giganti di quel tipo. Non posso parlare con cognizione di causa del mondo dei moderni songwriter, ma trovo spesso dei temi molto personali, un ripiegamento sulle ferite, in molti di loro, non so quanto senso di comunità. Ma ci sono fenomeni interessantissimi in giro, noto un fervore in alcune scene creative giovanili, (folk, nu soul, scene vicine al jazz) un rimescolìo di tanti elementi. Una cantautrice che mi piace molto è Becca Stevens, una creatura originalissima che mescola forme e ritmi dispari da jazz nerd con gli ascolti di Stevie Wonder e di musica indiana. È interessante. Ho la sensazione comunque che i giganti siano anche i loro giganti.
Come hai scelto i brani di «Dreamers»?
La genesi del progetto, devo confessare, è un po’ cupa. Il progetto inizialmente si chiamava Drink up, Dreamers, un verso tratto da Here Comes the Flood, profetico brano di Peter Gabriel che in maniera visionaria pre/vedeva e pre/sentiva di decenni l’alluvione mediatica e l’iper-connettività di questi tempi. Prima del Covid ero tormentata da un forte senso di ansia e di rabbia per i razzismi, i sovranismi, sostenuti dal web e dalla macchina micidiale di fake news , che ha permesso a personaggi maniacalmente narcisisti e malati di arrivare a governare le nazioni più potenti del pianeta, le nostre destabilizzazioni tutte italiane. Ero arrabbiata e disturbata, e avevo bisogno di dire qualcosa che parlasse dei nostri sogni, invece, di fronte alla caduta delle illusioni. Che decisioni vogliamo prendere? Chi decidiamo di essere? Poi «the flood» è arrivata davvero con la pandemia, e ho deciso di togliere quel brano, e invece mettere uno spot sui sogni, sulla visione di un mondo «giusto» che una certa generazione di musicisti ha così ben saputo esprimere. Ecco che arriva Chinese Cafè di Joni Mitchell, che mi sembra parlare di me oggi. Ma anche Be Cool: ovvero, come cavarsela in un mondo ipocrita, e poi Carey, un ritratto della mia giovinezza hippie, e The Lee Shore, il sogno di un’ isola lontana, un rifugio per sfuggire alla guerra del Vietnam. E poi il manifesto di Dylan: The Times They Are a -Changin’. Ma noi, saremo in grado di cambiare qualcosa?
Molti dei brani di «Dreamers» sono scelte davvero particolari, o poco prevedibili: ad esempio scegliere una canzone recentissima di Paul Simon, o una quasi dimenticata di Tom Waits…
In generale, i brani che scelgo per un disco devono passare il vaglio su due fronti: musicalmente devono incantarmi, e devo sentire profondamente il testo. Ho scartato moltissimo materiale per questo disco. I brani di Simon, relativamente «nuovi» mi hanno proprio colpito allo stomaco. Pigs, Sheep and Wolves è la perfetta descrizione di certo bullismo politico, della facile strumentalizzazione di chi non ha chiavi di lettura e si fa pecora, della demonizzazione dei cani sciolti. Quello di Tom Waits, Rainbow Sleeves invece parla della cura dell’altro, di comprensione e empatia. La canto da tempo, ed è per me il perfetto messaggio conclusivo del disco. Perché non c’è altra via.
Esiste una «gioia segreta» nel cantare quei brani?
Sì. È la sensazione di stare dando voce ai sogni della mia generazione. Ok, non siamo riusciti a cambiare il mondo, anzi. Ma quei sogni non erano e non saranno mai sbagliati, come dice Galeano, l’utopia serve ad aver voglia di camminare. E poi c’è la gioia manifesta dell’intesa profonda con Julian Olivier Mazzariello, Enzo Pietropaoli e Alessandro Paternesi, che mi fa stare bene in studio e sul palco.
In conclusione?
Mentre il mondo rimane patriarcale e maschilista, la crescita della presenza e della consapevolezza femminile nel mondo del jazz e della cultura si fanno sentire. Le cose andranno meglio. Dovremo farle andare meglio.

 

Vocalist, voce recitante, compositrice, didatta, arrangiatrice, musicista a tutto tondo, sperimentatrice, ideatrice di progetti dove svaniscono i confini di genere tra le musiche, Maria Pia De Vito è una ambasciatrice internazionale del miglior jazz italiano, quello che si muove libero tra le situazioni. Quasi impossibile risalire alla messe di premi (sia come vocalist,sia come ideatrice di soluzioni sonore decisamente originali) ottenuti in una carriera che spazia tra gli anni e le idee: dalle ricognizioni sulla musica popolare napoletana documentata in «Nauplia» e «Fore paese» a quelle sulle note brasiliane, dal progetto su Pergolesi a quelli di confronto e incontro con altre voci. E poi «So Right», il disco di interpretazioni di Joni Mitchell, le collaborazioni con i Quintorigo nel progetto su Mingus, quelle con gli Area nel posto che fu di Demetrio Stratos, gli incontri con Kenny Wheeler, John Taylor, Uri Caine, Ralph Towner: un talento che è fiume in piena, declinato in mille rivoli affluenti.