Cosa tiene in mano Maria Paiato? Un bicchierino d’acqua con una rosellina rossa, a segnare il garbo di un racconto che entra subito nel vulcanico mondo di Roberto Bolaño, autore poco frequentato a teatro, forse proprio per la debordante ricchezza della sua scrittura. Si pensi a 2666, uscito postumo, nel 2004, all’indomani della morte dell’appena cinquantenne autore. In questo Amuleto, sorta di «completamento dello sguardo» – così lo considera lo stesso autore – , un unico corpo-voce, quello di Auxilio Lacouture, già abbozzato nei Detective selvaggi, diffonde la miriade di personaggi, inventati e reali, che compaiono e scompaiono attraverso le opere dello scrittore cileno, tra i maggiori e più inquieti rappresentanti della letteratura latinoamericana del secondo Novecento.

E con quell’incalcolabile crogiolo di voci si compone l’anima profonda latinoamericana e di una generazione di intellettuali, artisti e poeti in movimento da un paese all’altro, cresciuti nell’incubo di sanguinarie dittature. Esuli o viaggiatori, in perenne ricerca di qualcosa o qualcuno. La perdita, e la memoria che supplisca tale scomparsa, è infatti un filo rosso nel lascito letterario di Bolaño. Così è per l’uruguaiana Auxilio Lacouture, «la madre della poesia messicana» – esordisce nell’incipit del racconto -, che ha dimenticato quando sia arrivata a Città del Messico, per mettersi a devota disposizione, alternativamente, di León Felipe e Pedro Garfias, e respirarne l’aria polverosa di carte delle loro case. E poi girare per l’Università, svolgendo con candida generosità una serie di lavoretti essenziali o di poco conto, dalla correzione di bozze alle fotocopie.

Sicuro, il 18 settembre del ’68, si trovava nei bagni della Facoltà di Lettere e Filosofia, seduta sul water a leggere le poesie di Garfias, e vede tutto. La violenta irruzione dei reparti antisommossa e gli arresti di massa, mentre lei rimane nascosta lì per dodici giorni, leggendo, ricordando, fantasticando. I bar nella notte del DF, la tequila, i versi folgoranti dei giovani poeti, gli amori sognati e veri, le tensioni libertarie e letterarie… Nella scena vuota, l’impavida Paiato-Auxilio resta quasi immobile per 75 minuti, solo i sagomatori ritagliano lo spazio, mentre la voce e il volto sono modulati con la maestria di una mattatrice e passano dalla calma all’impeto, dalla tenerezza nel ricordo del sedicenne poeta Arturo Belano – alter ego di Bolaño – che all’inizio non sapeva bere, all’orrore nel solo nominare il massacro di Tlatelolco, in quell’autunno del 1968.

Certo lo spettacolo, diretto da Riccardo Massai (presentato nel cartellone del Teatro India in scena nella stagione del Teatro India), funziona con i bolañomani, che compensano le ellissi drammaturgiche con la propria esperienza di lettori. E forse sollecita gli altri spettatori all’incontro con quei giochi di rimandi e quelle dissertazioni sulla letteratura non solo latinoamericana di Bolaño. Perché li colloca, questi ignari spettatori, in un luogo da cui si vede un mondo, non solo letterario, che per loro resta tutto da conoscere.