Ventun’ anni compiuti in gennaio, me la figuro, nel settembre del 1943, iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia, in quei corridoi e in quelle aule che un giorno saranno anche i miei. E in quei viali della Città Universitaria inaugurata otto anni prima, gli alberi ancora giovani e l’alta statua della Minerva armata che par lanciare un grido, nel pieno sole del grande piazzale sui travertini della fontana. Lei, Maria, inconfondibile con quella spuma nera di capelli ricci, studentessa del terzo anno che viene dal Liceo Visconti. Era quello «un settembre più caldo dei precedenti – come se lo ricordava Ruggero Zangrandi – in cui le giornate scorrevano uggiose e interminabili, forse perché la guerra era già perduta, per gli italiani, e ad essi non rimaneva che aspettare che avesse concretamente fine, in qualche modo». Aspettare. No, già da qualche mese, dalla fine del 1942, Maria è «disponibile per fare qualcosa». Viene da una famiglia non fascista e, scrive, da un «ambiente che, pur senza essere capace di grandi azioni, mi invitava a dire che non dovevo raccogliere tutto quello che mi veniva offerto, ma a fare un minimo di scelta». E le sue ‘minime’ scelte maturano costanti fin dagli anni del Liceo, dal 1936 al 1940: «la cultura invita anche a riflettere, scrive, a pensare a molte cose».

Legge Croce che giudica il fascismo un fenomeno transitorio, una «parentesi». Una analisi che, intanto, di fronte alla martellante retorica di un’era nuova che il fascismo avrebbe aperto nel 1922, «ce lo faceva già pensare come un fatto temporaneo, pensare che dovesse cadere». E tuttavia non ritiene Maria di dover accogliere l’invito di un oppositore liberale quando le dice: «sei una ragazza intelligente, il fascismo dovrà crollare», partecipa anche tu ai nostri «gruppi di studio che debbono preparare» la nuova classe dirigente. Da parte sua, lei è da tempo persuasa che il solo prepararsi e un tenersi pronti per il ‘dopo’ non bastino. «Bisogna fare», risponde con convinzione. Ai primi del 1943, senza potersi ancora dire comunista, è già impegnata a raccogliere fondi per l’Unità clandestina e a diffondere quell’esile foglio. Scrive: «la mia vera socializzazione politica avviene in questo periodo, quando ci sono stati i nove mesi della Resistenza romana, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944». Traggo queste parole da una conversazione del 1992 con alcune donne socialdemocratiche tedesche della Friedrich Ebert Stiftung, che leggo ora in Maria Michetti. Volevo un mondo migliore, il volume curato da Maria Immacolata Macioti e appena pubblicato da Ediesse nella collana ‘Storia e memoria’.

Maria nei mesi di Roma città aperta. C’è nel libro la testimonianza di Giosi, tra le sorelle di Maria la più piccola ed ultima nata, che, pur essendo allora nella sua primissima infanzia, di quell’anno cruciale ha serbato la sensazione di una sorella ‘grande’, quasi una seconda mamma per lei, quando la Maria staffetta partigiana «compariva e scompariva in casa ad ore impossibili in una Roma che – credo – incuteva paura». Lo dice Maria che «la vera Resistenza è avvenuta dentro le case, nei piccoli gruppi, in famiglie, gruppi di amici, persone che anche si ritrovavano lì, ma piccoli gruppi in cui la solidarietà diventava elementare e la vita di uno era la vita di tutti».

La città sotto il tallone nazista che dice di ‘rivedere’. «Vedo, dice, centinaia e centinaia di case, di cucine, di camere da letto dove ho fatto riunioni di donne, piccole riunioni di donne, donne parenti, donne amiche tra loro, donne che si fidavano l’una dell’altra. Riunioni nelle quali si poteva parlare e dove da questo piccolo gruppo traevano la forza di uscire di casa, esporsi, fare, agire, dimostrare la loro volontà di vita!». Affermare la vita in un tempo di carestia, di distruzione e di morte. «Allora, dice ancora Maria, da questa catena di riunioni, centinaia e centinaia, fatte in tutti i modi e in tutte le condizioni, mi è rimasta una grande ricchezza umana, una selva di vite di donne, l’una diversa dall’altra, tutte con la stessa volontà di resistere, di vivere per sé e per i figli, per la casa per la famiglia: perché si deve vivere. Si nasce e si deve vivere. La vita è un valore per sé».