Una notizia incontrollata garantisce che la bibliografia su Richard Wagner sia seconda solo a quella su Gesù. Ora, nessuno vorrà sostenere altrettanto per quella inerente Maria Callas; ma che il soprano greco-statunitense, italiano e poi parigino d’adozione, potesse vantare fino al 2013 (www.callas-club.de: sito non più aggiornato) la bellezza di 1008 pubblicazioni a lei dedicate ha del sorprendente. E da allora, complice anche il quarantennale della morte (2017), il numero è cresciuto, e di parecchio. Buon ultimo, da poco dato alle stampe in Italia presso Rizzoli ma già apparso in Francia l’anno passato, il corposo Io, Maria Lettere e memorie inedite (pp. 555, € 21,00) a cura di Tom Volf, un giovin signore russo naturalizzato francese, che il risvolto di copertina definisce «fotografo e regista, uno dei più grandi conoscitori ed esperti della cantante». Buon ultimo, si diceva, ma anche cattivo.

Note e ignote
Tanto per cominciare, occorre chiarire che il volume mantiene solo in parte ciò che il sottotitolo promette, l’inedito non riguardando, a voler essere ottimisti, che la metà dei documenti complessivi (oltre a lettere di e alla Callas, troviamo note di diario altrui, ricordi della cantante raccolti da terzi, testi destinati alla stampa da lei firmati – non scritti). Rispetto all’edizione francese sono corrette alcune datazioni errate, reintegrati dei tagli, ma spariscono circa 40 missive, non tutte prive d’interesse; da entrambe, poi, mancano reperti comparsi in cataloghi d’asta o conservati in archivi e collezioni private.

Mai si citano le fonti a stampa in cui sono apparse moltissime lettere (a Meneghini, a e di Rudolf Bing – sovrintendente del Metropolitan –, di Zeffirelli, a Pasolini, di Visconti, di Bernstein, ecc.), né – grave mancanza – l’ubicazione attuale delle note come delle ignote; nessuna menzione dei cosiddetti crediti fotografici. Le chiose a piè di pagina offrono scarse informazioni, e non sempre esatte: Luchino Visconti non rinunciò alla regìa del Poliuto donizettiano alla Scala per «un altro impegno», ma per protesta contro la censura che aveva colpito la sua messinscena dell’Arialda, commedia di Giovanni Testori; la scenografa e costumista della Traviata milanese nel 1955 e ’56 (e di infinite altre cose) si chiamava Lila non Lilla De Nobili; della trasmissione televisiva francese L’invité du dimanche la Callas non era «la star», ma appunto l’ospite di una puntata andata in onda nel 1969; e così via, sino a gettare qualche ombra sulle presunte conoscenze callasiane di Volf, il quale compensa i limiti della sua competenza con una passione smodata e con uno spiccato senso del marketing: dopo un documentario e un librone fotografico, intitolati entrambi Maria by Callas, eccolo dedicarsi alla creazione, in quel di Parigi, di un «fondo di dotazione» (sic) Maria Callas, in virtù del quale si candida a gestire la memoria materiale e immateriale della Divina.

Quanto alle traduzioni delle lettere dall’inglese (di Gustavo Visentini), dal greco e dal francese (Netphilo Publishing), a leggerle così come vengono scorrono in un italiano attendibile. Solo che, a osservarlo nei particolari, questo italiano è crivellato di strafalcioni: l’inglese piece, riferito al Pirata di Bellini, andrebbe reso non con pezzo, ma con titolo, lavoro, opera, spartito; il francese directeur (della Scala) vale sovrintendente non direttore (si tratta di Antonio Ghiringhelli), rédacteur en chef varrebbe direttore e non caporedattore (Mario Missiroli del «Corriere della sera»); e potrei continuare a lungo.

Se tanto s’è insistito su ciò che manca a questo primo tentativo di epistolario callasiano è per tentar d’indurre i suoi potenziali lettori a non richiederglielo. E a leggerlo invece come raccolta di informazioni inedite o poco note: il Trovatore che non si fece a Firenze nell’inverno 1949-50 e quello che sfumò a Londra nel ’63; le trattative con Roma per il rossiniano L’assedio di Corinto nel 1951, poi passato alla Tebaldi (ma questo nel libro non si dice); l’inaugurazione della stagione 1957-58 alla Scala che dal Mosè (non Moses, come figura nell’originale in inglese della lettera e come è stato conservato in italiano) di Rossini muta nel Trovatore, nei Puritani, nella Favorita, in Medea, per approdare infine a Un ballo in maschera; una Bolena di Donizetti saltata nel 1959 alla Fenice di Venezia; la decisione di tornare all’opera presa dopo il matrimonio Onassis-Kennedy con una Norma e una Medea previste per l’autunno 1969: sogno irrealizzato, e irrealizzabile.

Non proprio alla grande
E se sul piano formale-espressivo nulla possono dirci queste pagine, dettate da una donna tanto intelligente (di musica) quanto illetterata, molto invece ci insegnano in rapporto alla psicologia dell’artista e della donna: la coscienza spiccata dei propri meriti e doveri artistici sin dagli inizi (lettera alla maestra, Elvira de Hidalgo, 28 gennaio 1946: la prima della raccolta); la voglia di sempre migliorare, lo studio indefesso dei primi anni in Italia; e quando la voce non risponde più, il rifugio nella bugia pietosa e autoconsolatoria («le cose vanno alla grande», e siamo nel ’74, durante gli spaventosi concerti in Giappone) o in proclami del tipo «non sono più così giovane e la mia salute non mi permette di lavorare tanto come una volta» (a 38 anni!). Non muta invece l’interesse per il risvolto economico della professione né il bisogno di prendere il più possibile dagli altri in termini di dedizione, calore umano, sostegno e tutela, dando in cambio il minimo indispensabile: «il mio fondo è una grande timidezza e quasi gelosia e paura che mi vedano dentro l’anima che è così sensibile e vulnerabile. È la mia difesa». Una difesa che alle volte si rovesciava in un contrattacco che non presupponeva prigionieri.