Specchiarsi negli occhi implacabili e teneri, infossati e infiniti di Marek Edelman – comandante in seconda delle rivolte nel ghetto di Varsavia nel ‘42 e nel ‘43 – mentre guardando in macchina e non guardando, primo piano, una sigaretta dopo l’altra – in un’intervista rilasciata nel 2009 a novant’anni, poco prima di morire – racconta e mette innanzi a tutto non l’orrore abissale insostenibile, ma gli amori, il congiungersi effusivo di anime e di corpi, le storie di quelle donne e di quegli uomini che si trovarono a danzare «un valzer di primavera» nel gelo desertico di un universo segregato.

Accade con Marek Edelman… c’era amore nel ghetto, documentario di Jolanta Dylewska (ma come autrice non è sola…), presentato nei giorni scorsi alla 31esima edizione del Trieste Film Festival, con la guida di Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo.
A quel tempo – nei primi anni ’40 – Edelman, lavora come inserviente all’ospedale dei bambini Bersohn e Bauman. Le sue mansioni sono terribili, si occupa del trasporto dei cadaveri, la paga è miserrima, e così la sua razione di cibo giornaliera. Pure, ha diritto a un pass per uscire dal ghetto, è tra i 44mila prescelti a rimanere in vita. Ha così gli strumenti per astrarsi da quell’acquario mortifero e osservare, una certa libertà di movimento.

Affiorano allora dalle sue parole – suscitate dalla regista in voce over, a seguire la traccia del libro omonimo da lui scritto (in Italia è edito da Sellerio) – epifanie di nomi, di sguardi e di volti, impastati del grigiore sdrucito e traballante dei filmati di repertorio e insieme della meraviglia dell’incarnarsi di attrici e attori, negli abiti, nella pelle di alcuni degli abitanti del ghetto apparsi sul suo tracciato. Nell’istante ottenebrato del passato e nel loro fiammeggiante manifestarsi adesso, senza soluzione di continuità, per le strade della Varsavia di oggi, tra palazzi sventrati e grattacieli ricostruiti. La voce di Edelman è una chiamata, e loro – come la ragazza con l’orecchino di perla – si girano a guardare chi guarda.

Ma a interpellarli è anche Andrej Wajda che, poco prima della morte, affianca Dylewska per ciò che concerne queste sublimi rievocazioni. Considerato poi che la scrittura del film gode anche dell’apporto di Agnieszka Holland, l’esito è un distillato altissimo della storia e del cinema della Polonia.

Perché, dal novembre del ’40, c’è il muro sì, con cui i tedeschi dividono in due la città, recludendovi 450mila ebrei – ma c’è anche Deda, una ragazza di 17 anni («quando una persona fiorisce») negli occhi la luce del suo «primo amore fisico e spirituale», mano nella mano con lui, e il resto di quel mondo inspiegabile un fuori fuoco indistinto.

Ci sono corpi senza più vita ai margini della via, e nessuno che se ne curi, bambini ischeletriti e stremati, condizioni igieniche penose, e c’è Dola, con la sua chioma rosso dorata e il suo amore tra i boschi con il commissario dell’ospedale che si prende cura di lei e del suo ex marito ora morente (l’amante che le solleva l’abito fino alla pelle nuda oltre la giarrettiera e che la ricopre pietosamente quando viene trucidata). C’è Pola, burattinaia (i suoi bambini sono i primi a capire, attraverso il teatro, cosa significhi essere deprivati della libertà), e il suo sentirsi salva per qualche ora tra le braccia di Janeck: insieme in risciò percorrono le strade della città odierna in cerca della madre di lei, portata a Umschlagplatz, punto di raccolta per la deportazioni ai campi.

E tra i volti c’è il suo, di Marek allora ventenne (un brillio attraversa i suoi occhi quando Dylewska gli chiede se era attraente), quando Dola, che era infermiera, lo invita a prendere la morfina con lei e a fare l’amore, quando Tosia, una dottoressa, prima lo cura e gli offre vino e carezze e poi gli insegna come «far funzionare le cose» in quel letto d’ospedale, o quando una ragazza lo aspetta per ore al ghetto: allora è estatico l’incontrarsi tra gli alberi «nella notte più scura», allora quel senso di sicurezza e consolazione è «più dell’amore».

Altrove le sue parole precipitano in un buio sempre più fitto. Un soldato spara al ventre di una ragazza incinta, nel silenzio rotto solo dall’incedere cieco dei passi («non è vero che c’erano urla di disperazione»), uomini e donne con la stella al braccio procedono verso un buco nero; Edelman si indispettisce innanzi all’insistere della regista (potevi fare qualcosa per aiutarli? Cosa leggevi nei loro occhi?) allo scarto del suo vissuto, la accusa di non avere anima, si narra come testimone impotente di uno stupro. Pure, in quell’inferno a cielo aperto, dopo aver combattuto tutta la vita poi come cardiologo e attivista anche di Solidarnosc, si apre alla gioia più disarmata ricordando due innamorati sotto la neve, «irradiavano così tanto amore che nessuno osava molestarli». E i passanti di oggi si voltano a guardarli.