Sul Colle Guasco il profilo del duomo di San Ciriaco è ancora segnato dalle luci artificiali. Nel piccolo bar del porto di Ancona un giovane ragazzo assonnato prepara i caffè per i pescatori ancora a terra. Sono le 4 e 30 di una mattina di marzo, il freddo è tagliente e manca poco all’alba. I muletti corrono nel porto a velocità sostenuta inforcando gli ultimi bancali ricolmi di cassette di polistirolo, i marinai controllano le reti, si accendono sigarette e parlano di mare.

Enrico Vigoni è l’armatore e il comandante della «Ulder», l’unico peschereccio rosso del porto. Aspetta che i marinai a bordo finiscano di controllare la macchina del ghiaccio dove infileranno le mani nude per molte ore: un equipaggio per metà straniero, un marocchino, un algerino, un senegalese e tre italiani, comandante compreso. Volti di mare spaccati da rughe di mare e di sole, stropicciati dalla fatica quotidiana. Si parte in coppia con un altro peschereccio, la pesca volante si fa così: si butta in mare una rete sospesa a mezz’acqua trainata contemporaneamente da due imbarcazioni «gemelle», poi la si tira su una volta a ciascuno. Le navi si scambiano informazioni via radio.

Quella di oggi sarà una giornata difficile, l’Adriatico potrebbe essere mosso ma non si sa quanto. Bisogna, comunque, partire; in tempi di crisi viene messa in conto una percentuale di rischio maggiore, d’altronde in questi anni il prezzo del gasolio è salito inversamente a quello del pesce che precipitava a picco: nel 2007, al mercato di Ancona, alici-sardine venivano vendute tra 2,55 e 4,28 euro al chilo, nel 2014 i prezzi sono oscillati tra 1,27 e 2,72 euro. «Quanto pesce dobbiamo ammazzare per riuscire a sopravvivere?», dicono in coro.
Al ritorno i marinai scaricheranno a mano mille cassette, pari a sette tonnellate tra acciughe e sarde.

Mollati gli ormeggi la barca di Enrico salpa. Allontanandoci dalle luci del porto, il vento incomincia a soffiare e l’acqua del golfo del Conero diventa a ogni metro più scura, fino ai primi chiarori dell’alba che marcheranno la linea dell’orizzonte tra il blu cobalto del mare e il grigiore del cielo. Vigoni è nato in una storica famiglia di pescatori: «La prima volta che sono salito su una barca ero in culla e vicino al molo stavano varando il primo peschereccio di mio padre. Era in legno. È stato lui, nonostante non abbia mai smesso di soffrire il mal di mare, a trasmettermi la passione per questo lavoro. All’età di undici anni mi insegnava a fare le manovre, ormeggiare e disormeggiare. A tredici anni le facevo da solo».

Continua l’attività di famiglia, la pesca del pesce azzurro nel Mare Adriatico. Nelle stesse acque dove giovedì sono morti quattro lavoratori marittimi nel naufragio della motonave «Lo Sparviero», affondata a largo di Civitanova Marche, 45 chilometri a sud di Ancona. Prelevavano cozze in impianti di miticoltura. La barca – secondo i magistrati e la Guardia costiera – si sarebbe inclinata e poi rovesciata per uno spostamento del carico o di materiale troppo pesante a bordo. «Avevamo 60-80 quintali di cozze quando è arrivata un’onda anomala da levante che ha spostato il carico tutto da un lato e ha fatto rovesciare l’imbarcazione» ha spiegato Aldo Leo, collega delle vittime. Poche ore prima si inabissava nelle gelide acque del mare di Ochotsk, estremo oriente russo affacciato sul Pacifico, il Dalny Vostok, un peschereccio «congelatore». Le autorità locali hanno escluso che la causa del ribaltamento possa essere stato un sovraccarico dell’imbarcazione, «al momento la teoria più credibile per l’affondamento è quella di uno scontro con un ostacolo, che ha provocato uno squarcio nel settore macchine». Il bilancio dei morti è salito a 56 vittime, 12 i dispersi. Sessantatré marinai sono stati tratti in salvo; al momento dell’incidente i membri dell’equipaggio erano 132, 78 russi e 54 stranieri, in gran parte di Myanmar.

Un lavoro della cui pericolosità il consumatore non ha percezione. «Noi invecchiamo – racconta dalla plancia Vigoni della Ulder – mentre il mare ha sempre vent’anni e va rispettato, la natura ha una forza indescrivibile, non puoi mai sapere che onda trovi davanti a te. Una raffica di vento, un’onda anomala possono capitare. Quando vediamo che il mare è troppo grosso decidiamo di tornare o non partire. Temo il mare mosso più del prezzo del gasolio o del fisco. Se i governi ci dessero una mano su questi due ultimi problemi potremmo lavorare senza la gogna dei debiti e delle quantità di pesce. Ora, lo facciamo per sfamare figli e dipendenti. Un dipendente a volte non riesce ad arrivare a 800 euro a fine mese». Un terzo di quanto guadagnavano solo pochi anni fa. Questo perché il loro contratto vincola il salario al pescato giornaliero.

Alle 6,30 è ormai giorno, la Ulder è al largo e i marinai calano le reti in acqua insieme a quelli della barca gemella, la «Mirage». L’ecoscandaglio ha notato un banco di pesci. Le navi rollano paurosamente, le onde sono alte. In prua a guidare le operazioni c’è Yang, 57 anni: «Ho sempre fatto il pescatore, fin da bambino. In Italia sono arrivato nel 2003, la mia famiglia è in Senegal. E lì che vorrei tornare. Mi piace questo lavoro, ma sono stanco». Andrea ha 47 anni si occupa delle macchine, è originario di Cetara, costiera amalfitana, dove si imbarcò la prima volta a 17 anni per la pesca alla lampara del tonno. «Quest’anno compio trent’anni di mare. La Fornero ha fatto una legge con cui ci manda in pensione a 67 anni. Pensa davvero che possiamo resistere? Acqua fredda, schiena piegata, mare agitato. Moriremo prima o finiremo su una sedia a rotelle».

Nonostante la cura per la sicurezza è evidentemente un lavoro pericoloso: funi d’acciaio corrono a pochi centimetri da gambe e braccia, onde che saltano dentro la pancia della nave e rischiano di farti sbalzare fuori. Ore e ore di lotta. Dopo ogni «calata» dal mare esce un enorme pallone di pesci guizzanti chiusi dentro una rete a maglie finissime. I gabbiani volteggiano nel cielo a centinaia e recuperano i pesciolini che scappano.

Aperta la rete i marinai, sbattuti dalle onde, dividono il pesce e a mani nude lo coprono di ghiaccio.

Il paradosso è che quando c’è il mare mosso si torna prima e si pesca di più, nonostante i rischi. Escono meno barche in mare, quelle più tecnologicamente avanzate; sardine e acciughe diventano difficili da cercare ma c’è meno concorrenza diretta; torna prima al porto chi porta più tonnellate di pesce. Senza però dimenticare la concorrenza con tutti gli altri porti europei e non solo. «Il mare si è impoverito, mentre il pesce veniva meno, le spese aumentavano e abbiamo dovuto raccogliere di più per ammortizzare i costi. Abbiamo ingrandito le reti e i motori, ma senza guadagnarci». La pesca volante è meno impattante di quella a strascico, ma certo non è pienamente sostenibile. L’unica soluzione all’impoverimento è una regolamentazione a livello europeo.
Vigoni e il suo equipaggio vivono con il mare ma lottano con i mutui delle banche; sette anni fa ha acquistato la motonave per un milione e mezzo di euro, i soldi investiti, però, non riescono a fruttare. L’ha presa in un momento di crisi piena, nel 2008, gli effetti del caro carburante determinarono, a livello di singola impresa di pesca, una riduzione del profitto lordo del 30%.

La pesca è finita, si torna indietro alle tre del pomeriggio e ci sono ancora due ore di lavoro necessarie per scaricare il pesce. In tutto sono dodici ore (a volte quattordici) con un pausa brevissima di mezz’ora per mangiare pasta alle sarde appena pescate, fumare una sigaretta, fare una preghiera rivolti verso est. Termina la giornata, è nuovamente notte, il pesce piombato in un container parte per la Spagna, qualche cassetta esce sotto banco dal porto e così qualcuno arrotonda il magro guadagno con qualche spicciolo. Gli altri tornano a casa, con il pensiero che dopo meno di dieci ore saranno nuovamente qua.